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Con questo lavoro si intende esporre i risultati dello studio della disciplina dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, un rito alternativo noto nella prassi con la denominazione di “patteggiamento”. Il “patteggiamento” è stato introdotto nel nostro ordinamento in occasione della riforma del codice di rito avvenuta nel 1989. Infatti, ispirandosi al diritto anglosassone, la riforma ha dato una svolta decisiva al sistema del processo penale italiano, abbandonando il modello inquisitorio e introducendo quello accusatorio. Nel modello accusatorio il procedimento penale è una contesa tra le parti in contrapposizione dialettica di fronte ad un terzo con funzioni esclusivamente giudicanti. La giustizia consiste nella ricerca della verità cui partecipano le parti, accusatore ed accusato, con pari poteri nella determinazione della causa petendi, del petitum e del thema probandum. Il giudice è terzo ed imparziale e valuta le prove presentate dalle parti, quelle che emergono durante la fase dibattimentale del processo e, poi, pronuncia una sentenza che decide il caso e che, potenzialmente, è caratterizzata dalla irrevocabilità e dalla definitività. Le parti hanno l’onere di sostenere le proprie argomentazioni, pubblicamente e oralmente, di fronte ad un giudice e, nella maggior parte dei casi, ad una giuria, secondo lo schema della “parità di armi”, ossia una parità di diritti e poteri fra organo accusatorio e imputato.
Pertanto, nel loro interesse devono raccogliere le prove che ritengono sufficienti a sostenere la propria posizione, a resistere agli attacchi e, addirittura, a superare, in quanto a valenza probatoria, quelle addotte dalla controparte. L’organo accusatorio e l’imputato si contrappongono, si scontrano, al fine di convincere il giudice della fondatezza delle prove presentate e della posizione sostenuta. L’applicazione della pena su richiesta delle parti e, in generale, tutti i riti alternativi rappresentano elementi essenziali per il buon funzionamento del modello accusatorio. Infatti, essi sono degli strumenti con funzione deflativa finalizzati a ridurre il numero di procedimenti penali che culminano nel dibattimento basato sul contraddittorio tra le parti .
L’applicazione della pena su richiesta delle parti si ispira all’istituto anglosassone del plea bargaining che consiste in una forma di contrattazione tra accusa e difesa, a seguito della quale, l’imputato s’impegna a dichiararsi colpevole, rinunciando al processo in cambio di talune vantaggiose concessioni da parte del Prosecutor che rappresenta la pubblica accusa. Da un punto di vista pratico il plea bargaining si è rivelato uno strumento di grande utilità per rispondere all’esigenza di rendere giustizia sollecita, invogliando gli indagati o imputati a rinunciare al procedimento ordinario e riservando al giudice del dibattimento i casi più gravi ed importanti. A fronte di tale utilità pratica, tuttavia, da un punto di vista teorico il plea bargaining sembra incompatibile con il complessivo impianto accusatorio del procedimento penale basato sul contraddittorio delle parti. La possibilità di evitare il dibattimento, definendo anticipatamente il processo, diventa, infatti, una deviazione inquisitoria della procedura. Anche per questo motivo il plea bargaining ha avuto difficoltà a diffondersi in Italia. Come si evince dal secondo capitolo del presente lavoro, il “patteggiamento” è disciplinato dagli artt.444 e ss c.p.p..
Esso consiste in un accordo tra imputato e magistrato del pubblico ministero in merito alla misura della pena da applicare, che può avvenire solo in presenza di alcuni presupposti oggettivi necessari, per un verso a salvaguardare la riconducibilità della richiesta alla volontà dell’imputato e per imporre limiti alla discrezionalità del magistrato del pubblico ministero; per l’altro verso, per fissare diverse modalità e forme differenti di accordo a seconda del momento in cui interviene la richiesta o si può raggiungere il consenso. Il “patteggiamento” presuppone, innanzitutto, che vi sia una richiesta di applicazione della pena e il consenso delle parti. In secondo luogo, la richiesta che la parte formula deve enunciare, la specie e la misura della sanzione da applicare con riferimento alle tre categorie prese in esame dall’art.444 c.p.p. cioè alle sanzioni sostitutive, alla pena pecuniaria e alla pena detentiva. L’accordo deve essere sottoposto al giudice il quale, come dispone l’art.444 comma 2, è chiamato ad esprimersi sul merito della regiudicanda tracciata dalle parti stesse. Il giudice, in base alle norme del codice di rito, può accogliere o rigettare in blocco l’intesa senza possibilità alcuna di modifica, di aggiunta o di proporre direttamente una diversa soluzione anche più favorevole. Il giudice, poi, deve assumere la sua decisione allo stato degli atti, cioè senza poter acquisire altre prove, essendo i suoi poteri cognitivi limitati a quanto contenuto nel fascicolo del magistrato del pubblico ministero.
I poteri del giudice, tuttavia, sono stati ulteriormente definiti e precisati dalla sentenza n.313 del 1990 con la quale la Corte Costituzionale ha effettuato un intervento additivo volto a ridisegnare l’intero istituto giuridico per renderlo compatibile con i principi della Costituzione italiana. La sentenza di “patteggiamento”, ai sensi dell’art.445 c.p.p., produce una serie di effetti premiali. Distinguendo tra sentenza prevista dall’art.444 comma 2 e decisione che applica la pena solo dopo la chiusura del dibattimento, si può ritenere che nella prima ipotesi gli effetti premiali sono più numerosi, annoverando a vantaggio dell’indagato/imputato l’immunità dalle spese del procedimento, dalle pene accessorie, dalle misure di sicurezza, fatta eccezione della confisca nei casi previsti dall’art.240 comma 2 c.p.. Sono comuni ad entrambe le fattispecie l’immunità da ogni riflesso del giudicato su eventuali giudizi civili o amministrativi nonché un’ulteriore beneficio di particolare rilievo ad applicazione differita subordinatamente ad alcune condizioni. Tale beneficio consiste nell’estinzione del reato e degli altri effetti penali che si verifica se l’imputato non commette reati della stessa indole, rispettivamente per due o cinque anni a seconda che si tratti di contravvenzione oppure di delitto, sempre che non si sottragga volontariamente alla sua esecuzione.
A ciò si aggiunga che la condanna non è menzionata nel casellario giudiziale e non incide sulla possibilità di concedere la sospensione condizionale in caso di avvenuta estinzione del reato se è stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva. Inoltre, è possibile che la parte, nel formulare la richiesta, ne subordini l’efficacia alla concessione della sospensione condizionale della pena. Il codice di rito non fornisce elementi utili per determinare con certezza la natura giuridica della sentenza di “patteggiamento”. Infatti, l’art.445 comma 1 stabilisce che, salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna. Si è voluto, in tal modo, incentivare il ricorso al “patteggiamento” con la previsione di una sentenza che non fosse proprio di condanna ma solo ad essa equiparata, peraltro nemmeno a tutti gli effetti. L’ambiguità del testo normativo ha determinato un ‘accesa controversia interpretativa in merito alla definizione della natura giuridica della sentenza di “patteggiamento” che si connette, innanzitutto, alla individuazione dei limiti ai poteri di accertamento del giudice in ordine alla responsabilità dell’indagato imputato. Infatti, per riconoscere natura giuridica di sentenza di condanna al provvedimento giurisdizionale con il quale viene applicata la pena su richiesta delle parti si deve ritenere indispensabile l’accertamento della responsabilità dell’imputato da parte del giudice anche nel rito del “patteggiamento”, onde evitare che l’istituto previsto dagli artt.444 e ss. c.p.p. risulti in contrasto con i principi sanciti dalla Costituzione. Per negare la natura di sentenza di condanna alla sentenza di “patteggiamento”, invece, è necessario effettuare un procedimento logico argomentativo inverso, prendendo le mosse dalle caratteristiche normative del provvedimento previsto dall’art.444 c.p.p. e ponendole a confronto con quelle tipiche della sentenza di condanna.
Tale procedimento argomentativo conduce alla conclusione che non può esservi identificazione fra i due tipi di sentenze. Tutto ciò induce a ritenere che la sentenza di “patteggiamento” non può essere definita tout court come sentenza di condanna bensì come una pronuncia giurisdizionale dichiarativa o di accertamento diversa da quelle tipicamente previste dagli artt.529 e ss. c.p.p., creata dal legislatore del 1988 per la definizione di un rito alternativo e totalmente nuovo rispetto alla tradizione processual-penalistica italiana. La sentenza di “patteggiamento” è, nella generalità dei casi, inappellabile potendo proporre appello soltanto il magistrato del pubblico ministero, qualora il giudice, dopo la chiusura del dibattimento di primo grado, abbia applicato la pena richiesta dall’imputato, ritenendola congrua e considerando ingiustificato il dissenso manifestato dall’organo dell’accusa. La sentenza di “patteggiamento” può essere impugnata con ricorso in Cassazione per inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale, per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza e, infine, per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato.
Quanto alla revisione, invece, la prevalente giurisprudenza, nel silenzio del codice, ha affermato l’incompatibilità del mezzo di impugnazione con il “patteggiamento” perchè questo rito alternativo al dibattimento manca di un reale accertamento di responsabilità penale e ha una struttura consensuale, in coerenza con la quale l’irrevocabilità del concordato, una volta accolta la richiesta delle parti, ne comporterebbe l’intangibilità del contenuto in sede d’impugnazione della sentenza. La sentenza n.313 del 1990 che, come si visto in precedenza, è intervenuta a valutare la compatibilità del “patteggiamento” con la Costituzione ha sollecitato l’intervento del legislatore con la legge n.479 del 16 dicembre 1999. Tale legge, da un lato ha direttamente uniformato la disciplina alle declaratorie di incostituzionalità della Corte, da un altro, ha indirettamente modificato la struttura del “patteggiamento” in modo tale da rivalutare il ruolo del giudice rispetto a quello del magistrato del pubblico ministero. Durante i primi dieci anni di sperimentazione del codice di procedura penale del 1989 l’istituto del “patteggiamento” è stato al centro di vicende contraddittorie. La finalità deflativa perseguita mediante questo rito alternativo non è stata raggiunta; si è registrato, infatti, un decollo statistico ben al di sotto degli auspici coltivati dal legislatore del 1988.
Le ragioni di questo fallimento risiedono, in primo luogo, nel fatto che la normativa codicistica dettata in tema di “patteggiamento” risulta carente da un punto di vista di coerenza sistematica e, in particolare, entra in più punti in conflitto con i principi fondamentali della Costituzione. Il “patteggiamento”, poi, è risultato difficilmente compatibile anche con il sistema penale, tanto nella sua compagine sostanziale, quanto in quella processuale. Tuttavia gli eventi di “Tangentopoli” hanno riportato in auge questo rito alternativo sollecitando l’elaborazione di diversi progetti di riforma culminati nella legge n.134 del 12 giugno 2003 cui si deve l’introduzione del “patteggiamento” allargato. In rapida sintesi la l.n. 134 del 2003 consta di cinque articoli che consentono, innanzitutto, la richiesta di “patteggiamento” di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria diminuita fino ad un terzo, ovvero di una pena detentiva, quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino ad un terzo, non supera cinque anni, soli o congiunti a pena pecuniaria. Il tratto emblematico della novella si concretizza proprio nell’ampliamento delle soglie di accesso al rito. Il “patteggiamento” allargato, infatti, si presta ad operare anche in relazione a fatti di reato di elevata gravità collocati per livelli edittali ben al di sopra della soglia di cinque anni.
Il nuovo istituto attraverso il bilanciamento tra circostanze tende ad assorbire fattispecie di reato punite con la reclusione anche fino ad undici anni. Tuttavia, la legge n.134 prevede l’esclusione del “patteggiamento” allargato per i procedimenti relativi ai reati sanzionati dall’art.51 comma 3 bis e 3 quater c.p.p.. Si tratta dei reati che esprimono o sottendono il vincolo associativo e che sono attribuiti alla cognizione dei magistrati della direzione distrettuale antimafia. A queste preclusioni oggettive si aggiungono le preclusioni soggettive in base alle quali il “patteggiamento” allargato non è accessibile per coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza o recidivi ai sensi dell’art.99 comma 4 c.p.. Attenua l’incidenza pratica dell’esclusione la possibilita’ che, di fatto, tali situazioni soggettive non siano accertate e dichiarate. Il “patteggiamento” allargato consente di beneficiare di un corredo premiale diverso da quello previsto per il “patteggiamento” originario. Infatti, per un verso i benefici elencati nel primo periodo del comma 1 dell’art.445 c.p.p. e cioè l’esonero dalle spese processuali, dalle pene accessorie e dalle misure di sicurezza sono negati all’imputato che patteggi una pena detentiva superiore ai due anni soli o congiunti a pena pecuniaria; per altro verso l’effetto estintivo postumo regolato dal comma 2 dell’art.445 c.p.p. è inoperante in sede allargata; quindi, in tal caso, non opera il beneficio consistente nell’estinzione del reato e degli altri effetti penali che nel “patteggiamento” tradizionale si verifica se l’imputato non commette reati della stessa indole, rispettivamente per due o cinque anni a seconda che si tratti di contravvenzione oppure di delitto, sempre che non si sottragga volontariamente alla sua esecuzione.
La novella dispone anche per la sentenza di “patteggiamento” allargato l’equiparazione alla sentenza di condanna. Tuttavia, solo contro la sentenza di “patteggiamento” allargato è ammissibile la revisione. Dalla rapida analisi della riforma del “patteggiamento” si evince una marcata differenza tra il “patteggiamento” tradizionale e quello allargato. Il primo dà luogo ad una condanna intrinsecamente risolubile che non è idonea a far scaturire tutti gli effetti tipici della dichiarazione di colpevolezza come il pagamento delle spese processuali e l’applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza. Il secondo, invece, sfocia in un provvedimento che applica una pena destinata ad essere eseguita dopo il passaggio in giudicato e che dispone in materia di spese e misure di sicurezza secondo quanto è prescritto dagli artt. 535 e 533 c.p.p.. E’ evidente, dunque, che la sentenza con la quale si infligge su richiesta delle parti una pena superiore ai due anni ricalca quasi interamente il modello della pronuncia emessa nel giudizio ordinario. Se ne differenzia solo nella parte in cui non può registrare, come prescrive l’art.533 comma 1 c.p.p., che l’imputato risulta colpevole poiché questo modulo espressivo presuppone un accertamento pieno che manca nella giustizia negoziata. Il legislatore, nella legge n.134 del 2003, come spesso avviene per le disposizioni aventi contenuto processuale, ha ritenuto di dover dettare l’art.5 che sancisce una specifica disciplina transitoria per definire l’ambito di operatività della nuova normativa sul “patteggiamento” allargato nei procedimenti penali pendenti alla data di entrata in vigore di quella legge cioè il 29 giugno 2003.
In particolare, si è stabilito che nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della predetta legge l’imputato o il suo difensore munito di procura speciale ed il magistrato del pubblico ministero, laddove si tratti di udienza in cui sia prevista la loro partecipazione, possono formulare la richiesta di applicazione di pena ex art.444 c.p.p., come modificato dalla medesima legge, anche nei processi penali in corso di dibattimento nei quali, a quella data di entrata in vigore della legge, risulti decorso il termine previsto dall’art.446 comma 1 c.p.p. e ciò anche quando sia già stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte del magistrato del pubblico ministero o la richiesta sia stata rigettata da parte del giudice e sempre che la nuova richiesta non costituisca mera riproposizione della precedente. Come si vede, nonostante le contorsioni della disposizione appare indubitabile che, da un lato la norma in parola configuri una generalizzata restituzione in termini per la presentazione della richiesta di “patteggiamento” e che dall’altro, tale richiesta possa riguardare sia pene non superiori a due anni di detenzione, sia pene superiori a due anni.
E’ possibile avanzare la richiesta di “patteggiamento” pure laddove il processo sia giunto a dibattimento e a prescindere dal fatto che ciò sia derivato da dissenso del magistrato del pubblico ministero o da precedente reiezione del giudice. Inoltre, tale remissione in termini è concessa non solo a colui il quale, vigenti le passate norme, non avrebbe potuto fruire della composizione sulla pena ma pure all’imputato che, legittimato al rito anche in precedenza, non si fosse neppure attivato nel senso di una definizione negoziata della sua vicenda. L’unico limite all’iniziativa consiste nel fatto che la richiesta non deve costituire mera riproposizione della precedente. All’eventuale iniziativa dell’imputato che manifesti l’intenzione di avvalersi dello strumento transitorio, il comma 2 del citato art.5, correla un congegno sospensivo del dibattimento. Infatti, su richiesta dell’imputato il dibattimento è sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni al fine di valutare l’opportunità della richiesta; durante tale periodo sono sospesi i termini di prescrizione e di custodia cautelare.
La disciplina transitoria dettata dall’art.5 della legge n.134 del 2003 è apparsa in contrasto con la Costituzione. Anche per questo motivo l’introduzione nel sistema processuale penale del cosiddetto “patteggiamento” allargato attraverso la l.n.134 del 12 giugno 2003 è stato accolto da un fuoco d’artificio di critiche, riserve e lamentazioni analizzate nel quarto capitolo che si chiude con un bilancio dei primi anni di applicazione di questo rito alternativo, operato tenendo conto dei dati statistici forniti in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario in corso.