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Il Piano Marshall

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Il secondo conflitto mondiale determinò la devastazione dei Paesi coinvolti negli eventi bellici, peraltro, già gravemente colpiti dalla Grande Guerra. Infatti, i Trattati di pace sottoscritti a Parigi agli inizi del 1919 avrebbero dovuto determinare anche il superamento della crisi economica generata dal primo conflitto mondiale. Tuttavia, come previsto da Keynes ne “Le conseguenze economiche della pace” tali Trattati produssero conseguenze economiche che rappresentarono la premessa per lo scoppio della seconda guerra mondiale.

Il secondo conflitto ebbe effetti disastrosi. Si trattò di una vera e propria guerra globale che coinvolse, direttamente o indirettamente, i popoli di tutti i continenti del mondo e fu combattuta, non solo per mare e per terra, ma anche attraverso un massiccio uso di mezzi aerei e di nuove tipologie di armi, sia offensive, sia difensive.
Si stima che alla guerra sia riconducibile la morte di circa 15 milioni di persone solo in Europa Occidentale. Milioni di individui, poi, furono feriti e si ammalarono di patologie connesse all’alimentazione.

Non è possibile stabilire in maniera certa il valore dei danni alle cose. Si ritiene, in ogni caso, che la guerra abbia determinato perdite superiori ai mille miliardi di dollari per le spese militari dirette, senza contare gli interessi sul debito nazionale, le pensioni riconosciute ai feriti e ai veterani e, naturalmente, il valore delle vite umane perdute o mutilate. I danni alle cose, pur in assenza di una stima certa, furono senz’altro superiori a quelli occorsi durante la Grande Guerra. Infatti, i bombardamenti aerei determinarono la distruzione, non solo degli impianti industriali e delle installazioni militari, ma anche di numerose abitazioni civili, di ferrovie, di porti e bacini. Solo i Paesi neutrali evitarono danni diretti ma subirono anch’essi gli effetti delle penurie provocate dalla guerra. Gli Stati Uniti, il Canada e l’America latina, invece, uscirono dalla guerra con un’economia decisamente rafforzata. Infatti, non avendo subito danni diretti, questi Paesi trassero vantaggio immediato dalla domanda bellica conseguendo una rilevante crescita del settore industriale, di quello tecnologico e di quello agricolo.
Gli Stati Uniti si mostrarono particolarmente sensibili alle problematiche connesse alla ricostruzione dell’Europa distrutta dalla guerra e decisero di concedere prestiti e aiuti ai Paesi in difficoltà.

Sull’ammontare dei prestiti concessi dagli Stati Uniti all’Europa tra gli anni 1945 e 1947 non c’è accordo. Secondo la Fondazione Marshall in quel biennio gli Stati Uniti concessero all’Europa prestiti per poco meno di 20 miliardi di dollari. Nelle memorie del Presidente Truman, invece, si parla di 15 miliardi di dollari. Secondo le stime dell’economista Kindleberger le risorse impiegate furono 10,1 miliardi di dollari mentre secondo Milward furono 10,098 miliardi di dollari. Gli aiuti vennero erogati attraverso la United Nation Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA) costituita il 9 novembre del 1943 la cui attività era finanziata dagli Stati Uniti per il 73%.
A dicembre del 1947 il governo degli Stati Uniti annunciò lo stanziamento di altri aiuti di emergenza a favore della Francia, dell’Austria e dell’Italia per 522 milioni di dollari. Tuttavia, le risorse erogate, in assenza di un articolato e organico programma di ricostruzione non furono sufficienti per risollevare le sorti dell’economia europea.

La ricostruzione dell’Europa, infatti, doveva passare attraverso la realizzazione di un nuovo ordine economico di respiro internazionale dal quale avrebbero tratto beneficio anche gli Stati Uniti. Alla luce delle vicende del primo dopoguerra, l’obiettivo primario era impedire che, venuti meno gli effetti trainanti del conflitto, l’economia degli Stati Uniti piombasse nella depressione per mancanza di mercati sui quali indirizzare le enormi capacità produttive. Pertanto, era necessario evitare di imporre ai Paesi sconfitti qualsiasi forma di riparazione e bisognava sostenere la cooperazione internazionale tra gli Stati europei.
Un’Europa povera e distrutta, poi, avrebbe rappresentato un pericolo non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista politico. La perdurante crisi economica, infatti, avrebbe alimentato l’avanzata del partito comunista. Pertanto, il Presidente Truman enunciò nel 1947 la cosiddetta “dottrina Truman” garantendo l’aiuto degli Stati Uniti a qualsiasi Paese del mondo nel quale vi fosse il rischio di una insurrezione comunista.

Nel maggio del 1947 l’ufficio economico del Dipartimento di Stato attraverso il lavoro di tre funzionari, Harold Cleveland, Ben Moore e Charles Kindleberger elaborò un programma coordinato di ripresa europea mettendo a nudo i problemi che impedivano la rinascita dell’economia del continente. I funzionari concordarono nel ritenere che la situazione europea era aggravata da tre ordini di problemi: il disequilibrio tra la domanda e l’offerta di lavoro, la situazione commerciale ancora autarchica nella quale vi era un interscambio limitato e insufficiente e la mancanza assoluta di coordinamento fra i Paesi europei nell’elaborazione dei loro piani per la ricostruzione.
Il Segretario di Stato George Marshall, in occasione della consegna della laurea ad honorem da parte dell’Università di Harvard, il 5 giugno del 1947, rese pubblica l’idea ispiratrice del programma per la ricostruzione europea che sarà noto come Piano Marshall. Il popolo statunitense, pur essendo lontano dai Paesi direttamente colpiti dal conflitto mondiale e dalla loro situazione anormale e difficile, era chiamato a comprendere la necessità di contribuire ad avviare la ripresa economica nell’interesse stesso degli Stati Uniti. Marshall manifestò la disponibilità del governo a sostenere e finanziare un programma elaborato con i Paesi europei devastati dalla guerra, al fine di renderli autonomi dal punto di vista economico e di sottrarli all’influenza dell’ideologia comunista.

Il Congresso cominciò a lavorare al programma di aiuti inviando 200 membri del Senato e della Camera in Europa per un periodo di circa sei mesi, per studiare problemi specifici e per valutare le condizioni economiche del Vecchio continente.
Il lavoro preparatorio permise di redigere il rapporto presentato dal segretario Marshall nel corso della riunione del Congresso del 17 novembre del 1947. Il costo totale dell’operazione di aiuto era stimato tra i 16 e i 20 miliardi di dollari. In quella occasione fu stabilito che il piano sarebbe stato denominato European Recovery Program anche se è passato alla storia come Piano Marshall.
Subito dopo l’annuncio del Piano, il 12 luglio del 1947 furono inaugurati a Parigi i lavori della Conferenza organizzata per mettere in contatto tra loro i Paesi europei intenzionati a collaborare per la rinascita dell’Europa.

La Conferenza fu indetta per rimarcare la necessità sia politica, sia economica che i Paesi europei si unissero per salvare le sorti del proprio continente evitando la formazione di blocchi ideologici e politici. Durante l’incontro di Parigi fu istituito il Committee for European Economic Cooperation (CEEC) o Comitato per la cooperazione economica europea che iniziò a preparare la stima del quantitativo di dollari necessario per la ricostruzione attraverso la redazione di un rapporto.

Nel contempo, il 16 aprile del 1948 fu istituita un’organizzazione permanente per la realizzazione del Piano, l’Organizzazione europea di cooperazione economica (OECE). In seno a tale Organizzazione che rappresentò l’organismo di esecuzione del Piano si stabilì che l’importo da destinare agli aiuti fosse determinato sulla base di un programma congiunto di ricostruzione. Ciascuno dei 16 Paesi europei interessati dal Piano Marshall avrebbe dovuto preparare un programma di ricostruzione economica da presentare all’OECE formulando precise richieste che indicassero i beni che si desideravano importare e l’ammontare del finanziamento da richiedere a tale scopo agli Stati Uniti. L’Organizzazione doveva esaminare ogni proposta individuale per coordinarle tra loro in modo da raggiungere la ripresa usando i fondi nella maniera più saggia possibile.
Il Piano Marshall perseguiva, innanzitutto, obiettivi di carattere economico. I Paesi beneficiari degli aiuti dovevano promuovere la produzione industriale e agricola in modo da velocizzare il processo di ritorno alla normalità e all’indipendenza dall’aiuto estero. Ciascun Paese doveva approvare le misure finanziarie e monetarie necessarie per stabilizzare la valuta, portare il bilancio in equilibrio e, in generale, ridare fiducia nel sistema monetario. La realizzazione degli obiettivi economici del Piano, dunque, richiedeva una forte cooperazione fra i Paesi europei che dovevano essere pronti ad incrementare e stimolare l’interscambio e fare il migliore uso congiunto delle risorse.
Il Piano Marshall, poi, tendeva a porre fine all’isolazionismo tedesco in Europa. Infatti, era necessario reintegrare la Germania in Europa al fine di condividerne anche le ricche risorse carbonifere.

L’integrazione economica e la fine dell’isolazionismo richiedevano anche la rimozione di una serie di limiti che, successivamente alla fine della guerra, avevano determinato una drastica diminuzione degli scambi intraeuropei.
Nell’ottobre del 1948, dunque, fu firmato l’Accordo per i pagamenti e le compensazioni intraeuropee che, attraverso l’impiego di una parte degli aiuti, riuscì a bilanciare gli squilibri bilaterali tra Paesi europei. Il secondo accordo di pagamento intraeuropeo del settembre del 1949 segnò un passo ulteriore verso la multilateralità che fu raggiunta solo nel 1959.
Un altro obiettivo del Piano Marshall fu il superamento dei contingentamenti che, limitando la quantità di merci che si potevano importare, rendevano inefficace il meccanismo dei prezzi e ostacolavano il libero commercio.
In Italia le reazioni governative all’annuncio del Piano Marshall non si fecero attendere. Il governo guidato dal democristiano De Gasperi difese con grande forza e dignità le ragioni della posizione dell’Italia uscita dal conflitto bellico. Già nel gennaio del 1947 il Presidente del consiglio si recò negli Stati Uniti dove riuscì ad ottenere dalla Export – Import Bank un prestito di 100 milioni di dollari concesso per aiutare la ripresa italiana, da tempo promesso e continuamente rinviato anche a causa della condotta americana ancora disattenta ed incerta sul ruolo dell’Italia. Peraltro, l’Italia fu il primo tra i Paesi vinti ad essere integrato nelle istituzioni internazionali; il 23 marzo del 1947, infatti, venne ammessa alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale.

La prima missione negli Stati Uniti consentì a De Gasperi di dimostrare che la politica italiana aveva mutato il proprio atteggiamento nei confronti del blocco sovietico, pur annoverando tra le sue fila il più grande partito comunista d’Occidente. Dopo la firma del Trattato di pace, il 30 maggio del 1947, De Gasperi formò un nuovo gabinetto monocolore, rafforzato da quattro indipendenti e due liberali. Allineandosi al nuovo corso politico caldeggiato da Washington il Presidente del Consiglio inaugurò la fase cosiddetta del “centrismo” durante la quale la Democrazia Cristiana governava con i suoi alleati di centro.
La seconda guerra mondiale in Italia aveva provocato notevoli danni al capitale fisico soprattutto nel settore dei trasporti dato che gli attacchi aerei si erano abbattuti sulle ferrovie e sulle linee elettrificate e a doppio binario. Dinanzi alla distruzione di tali infrastrutture il governo scelse di conservare ciò che rimaneva e di ripristinare ciò che era andato distrutto senza, tuttavia, effettuare nuovi investimenti. Anche i trasporti via mare erano stati seriamente danneggiati dalle distruzioni belliche.

In agricoltura le distruzioni furono massicce e causarono un calo produttivo del 25,6% nel 1946. Tale flessione non rappresentava una caduta difficile da recuperare ma l’agricoltura, per precisa scelta politica, venne abbandonata a sé stessa e occorsero circa 5 anni per tornare ai livelli produttivi pre bellici.
Anche l’industria subì ingenti danni. Tuttavia, secondo recenti stime escludendo le scorte i danni su immobili, macchinari e arredi industriali non eccedettero il 10% del capitale, come gli stessi industriali del tempo non faticavano ad ammettere. Gli impianti fissi dell’industria italiana, dunque, erano sopravvissuti alla guerra e ciò li rendeva particolarmente importanti e strategici nell’ambito del processo di ricostruzione post bellica. Ciò che mancava erano le materie prime e i combustibili; pertanto, l’industria era praticamente ferma.
Infine, si presentava il problema della disoccupazione strutturale, a cui doveva essere trovata una soluzione interna, dal momento che le possibilità di sbocchi migratori sembravano pressoché estinte.

Gli anni postbellici furono caratterizzati anche da un’elevata inflazione. Il fenomeno aveva avuto inizio ancor prima della fine della guerra ed era riconducibile, principalmente, a due ragioni: accanto alla scomparsa dei meccanismi forzosi per sottrarre liquidità al settore privato, iniziò una consistente immissione di moneta cartacea da parte delle autorità militari alleate; inoltre, venne effettuato un brusco adeguamento del cambio lira-dollaro, con una svalutazione implicita della moneta italiana di circa cinque volte.
Le scelte di politica economica necessarie per la ricostruzione post bellica furono affidate a Luigi Einaudi, al quale, nel 1947, fu assegnato il Ministero del Bilancio, di nuova istituzione, e la vicepresidenza del Consiglio. Il ministro puntò, in primo luogo, sulla ricostruzione delle attrezzature essenziali del Paese e sulla regolarizzazione dei rifornimenti per assicurare la continuità e lo sviluppo del processo produttivo e per ridurre la situazione di disagio della popolazione già tanto provata dalla guerra. Dopo questa fase iniziale, Einaudi lavorò al raggiungimento della stabilità monetaria e al blocco dell’inflazione.

Nel 1948 l’OECE incaricata del coordinamento e della distribuzione degli aiuti del Piano Marshall, invitò i Paesi che intendevano beneficiare di tali aiuti a definire gli obiettivi di politica economica, e i criteri secondo i quali i trasferimenti monetari dovevano avvenire, attraverso l’elaborazione di un piano economico. In Italia, il gruppo di esperti operante in seno all’Istituto di ricostruzione industriale (IRI) fondato nel 1933, si occupò dell’elaborazione del piano. Il documento, frutto del lavoro dei tecnici dell’IRI, suggeriva di indirizzare gli investimenti verso la produzione di energia e ciò al fine di aumentare la produttività delle imprese coinvolte, riacquistare competitività sul piano delle esportazioni (soprattutto nel settore meccanico) e, così, contribuire al riassetto della bilancia dei pagamenti. Il “piano di lungo termine” redatto dai tecnici dell’IRI guidati da Pasquale Saraceno fu criticato dall’organizzazione economica europea e dagli esperiti americani che operavano presso l’ Economic Cooperation Administration (ECA) di Roma. Questi ultimi, incaricati di seguire la corretta gestione dei fondi statunitensi, non esitarono a dare un giudizio negativo del piano. Il Country Study, documento redatto nel 1949 dall’agenzia americana rappresentò proprio la summa di tali critiche.

I beni distribuiti attraverso il Piano Marshall tra l’aprile del 1948 e il dicembre del 1951 ammontarono a 12,385 miliardi di dollari. L’allocazione era divisa in tre capitoli di spesa. Il primo capitolo di spesa era rappresentato dai grants cioè dai regali alle nazioni europee. I Paesi che ricevevano i grants dovevano depositare somme equivalenti della loro moneta accumulate attraverso la vendita dei beni forniti dal Piano Marshall ai propri cittadini in conti speciali chiamati Fondi di contropartita. Il 5% di questi Fondi veniva messo da parte per coprire le spese dell’amministrazione americana e per comprare materiali insufficienti. Il 95% dei Fondi poteva essere usato sulla base di un accordo congiunto tra la nazione beneficiaria e gli Stati Uniti per scopi specifici come la riduzione del debito nazionale e per progetti finalizzati ad aumentare la produzione agricola o industriale.
Il secondo capitolo di spesa era rappresentato dai loans che erano prestiti per l’acquisto di macchinari e attrezzature negli Stati Uniti concessi a particolari condizioni.

Infine, il terzo capitolo di spesa era il conditional aid o aiuto condizionato volto a stimolare il commercio intraeuropeo ed era regolato dall’accordo di pagamento intraeuropeo.
Durante il primo anno vennero stanziati più di 6 miliardi di dollari. Negli anni successivi le somme si ridussero a 3,7 miliardi nel 1949-50, a 2,3 miliardi nel 1950-51. Dal punto di vista geografico la quantità maggiore di risorse fu assegnata alla Gran Bretagna e alla Francia seguite dall’Italia e dalla Germania.
Il flusso degli aiuti non mantenne le stesse proporzioni di beni per tutta la durata del Piano. Durante il primo anno gli aiuti furono destinati, prevalentemente, all’acquisto di risorse alimentari e beni di prima necessità. Negli anni successivi lo scopo principale degli aiuti del Piano Marshall fu quello di contribuire alla creazione di capitale fisso, con l’obiettivo di incentivare gli investimenti.
All’Italia furono assegnati 1.508,8 milioni di dollari. Nel primo anno di applicazione del Piano Marshall l’Italia potè beneficiare di uno stanziamento di 668 milioni di dollari di cui 67 a titolo di prestito, 47,3 a titolo di aiuto condizionato e la restante parte a titolo di dono. La cifra globale corrispondeva a un aiuto di 14,5 dollari per abitante.
Il denaro messo a disposizione dell’Italia dagli Stati Uniti era davvero tanto e il modo di impiegarlo non comportava solo la scelta di un oggetto anziché di un altro ma persino l’adozione di una determinata politica economica piuttosto che di un’altra.
Autorevoli esponenti del mondo economico si confrontarono sul modo in cui il Governo aveva deciso di gestire gli aiuti Statunitensi e di utilizzare il Fondo di contropartita o Fondo lire. In particolare, gli osservatori si interrogarono sugli effetti che, nel lungo periodo, avrebbero prodotto le scelte effettuate dal Governo sin dal primo anno di attuazione del Piano Marshall.
Come si è detto, gli aiuti dell’ERP erano erogati in parte a titolo di prestito, in parte a titolo di dono e in parte a titolo di aiuto condizionato.

Per i quindici mesi compresi tra l’aprile del 1948 e il giugno del 1949 l’Italia su 668 milioni di dollari di merci ne ricevette 67 milioni a titolo di prestito cioè sottoforma di credito a lungo termine concesso a condizioni di particolare favore ad aziende che intendevano importare sul programma ERP macchinari e attrezzature dagli Stati Uniti. Le condizioni poste per tali prestiti erano molto vantaggiose per l’industria. Il governo, cedendo alle pressioni dei grandi gruppi industriali e attuando una politica economica ispirata alla scuola liberale, lasciò alla gestione diretta dei privati la definizione della procedura per la presentazione delle richieste. A tutto l’anno 1948 il valore dei macchinari e delle attrezzature industriali rappresentò solo il 0,1 del totale sbarcato.
Pertanto, almeno nel primo anno di attuazione del Piano Marshall gli aiuti non avevano rappresentato una cura ricostituente ma solo un sussidio di disoccupazione in quanto la ripresa economica andava perseguita modernizzando gli impianti industriali del Paese, aumentando la loro capacità produttiva e non regalando un panino al giorno agli italiani.
Negli anni successivi aumentò il quantitativo di macchinari e attrezzature importate dalle industrie. Tuttavia, autorevoli osservatori ribadirono che il governo non avrebbe dovuto rinunciare a qualsiasi forma di pianificazione, lasciando la gestione delle risorse dell’ERP ai canali privati rappresentati dagli imprenditori che facevano richiesta dei prestiti per l’acquisto dei macchinari. Infatti, ciò aveva limitato la quantità di risorse erogate dal Piano Marshall destinate al Mezzogiorno aggravando ulteriormente la condizione di squilibrio economico e sociale che, sin dall’Unità d’Italia, era nota come “questione meridionale”.

L’attuazione del Piano Marshall, dunque, fu l’occasione per lo sviluppo di un nuovo meridionalismo che si manifestò attraverso l’attività di ricerca e studio dell’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ) e del Comitato Permanente per il Mezzogiorno.
L’esame degli scritti dei più illustri meridionalisti e dei dibattiti parlamentari ha permesso di ricostruire il processo che ha condotto alla istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. I fondi erogati dal Piano Marshall dovevano essere impiegati per ridurre la distanza economica e sociale esistente tra le regioni settentrionali e quelle meridionali della penisola. Come osservarono Giuseppe Cenzato e Salvatore Guidotti la soluzione della “questione meridionale” passava attraverso lo sviluppo economico del Mezzogiorno che doveva essere legato all’industria. Era necessario, dunque, rimuovere gli ostacoli che impedivano al Mezzogiorno di avere uno sviluppo industriale e che si ravvisavano nella carenza di infrastrutture e, più in generale, nella mancanza di un ambiente favorevole alla formazione di una nuova classe dirigente capace di competere con le sfide che venivano dal rapido sviluppo della moderna economia. La realizzazione di tale obiettivo richiedeva l’intervento dello Stato attraverso l’impiego di risorse economiche notevoli.

Tali risorse, solo in parte potevano essere tratte dal Piano Marshall che rappresentava un intervento di durata limitata nel tempo. Era, dunque, necessario elaborare un articolato ed organico programma di sviluppo industriale per il Mezzogiorno che fosse in grado di persuadere gli Stati Uniti ad effettuare ulteriori investimenti di risorse finanziarie. Attraverso le relazioni intessute con l’ International Bank of Reconstruction and Development (BIRS) dal governatore della Banca d’Italia Donato Menichella e la pressione esercitata da una lobby meridionalistica che raccoglieva l’adesione di politici, tecnici ed intellettuali delle regioni del sud dell’Italia, fu costituita la Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale, un organismo con funzione di sostegno all’economia meridionale specificamente preposta ad attuare un programma organico di sviluppo industriale del Mezzogiorno. L’intervento straordinario attuato attraverso un nuovo ente “straordinario” di diritto pubblico con compiti delimitati nel tempo, al 30 giugno 1960, doveva garantire la realizzazione delle opere pubbliche e di tutti gli interventi infrastrutturali indispensabili per creare un ambiente che incoraggiasse la nascita nelle regioni meridionali di grossi impianti industriali diversi da quelli presenti nell’Italia settentrionale e compatibili con le caratteristiche economiche del territorio nei quali gli imprenditori locali avrebbero dovuto reinvestire gli utili. L’intervento non doveva avere, dunque, natura meramente assistenziale ma doveva stimolare l’iniziativa privata ed accrescere il potenziale produttivo nazionale.

L’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno di recente è stata considerata come un prodotto politico transnazionale nato dalla collaborazione tra la Banca d’Italia e la BIRS che chiedeva di canalizzare i finanziamenti in un unico ente sul modello della americana Tennessee Valley Authority, l’ente territoriale statunitense, che aveva gestito negli anni trenta lo sviluppo agricolo-industriale della valle del Tennessee. Altra dottrina, invece, ritiene che malgrado l’influenza della BIRS, l’istituzione della Cassa per il Mezzogionro fu un atto di governo di stampo tecnocratico radicato nelle grandi trasformazioni della società e dell’economia italiana degli anni della ricostruzione, e per molti aspetti connesso ad alcune caratteristiche strutturali ed istituzionali del percorso di sviluppo italiano nel lungo periodo.
L’effetto combinato degli interventi attuati attraverso la Cassa per il Mezzogiorno determinò una contrazione del divario tra il Nord e il Sud dell’Italia in termini di reddito e di consumi nonché un aumento della produttività della forza lavoro, cui concorse, peraltro, anche il significativo flusso migratorio verso le regioni settentrionali. Tale strategia di sviluppo, volta ad incentivare essenzialmente il fattore capitale, produsse, tuttavia, un uso distorto delle risorse, nel senso che destinatarie delle agevolazioni furono essenzialmente le iniziative industriali localizzate nelle aree dove abbondava la manodopera ma il capitale era scarso.

Tutto ciò finì col favorire la formazione di un apparato produttivo rigido e poco flessibile, basato sulle industrie pesanti della siderurgia e della petrolchimica, che nel corso degli anni ’70 del 1900 entrarono in crisi a seguito delle crisi petrolifere e del conseguente incremento dei prezzi delle materie prime energetiche. Nel corso degli anni ’60 del 1900, poi, l’ampliamento delle competenze della Cassa che iniziò ad erogare incentivi ad imprese e a piccole opere di interesse esclusivamente locale, accrebbero notevolmente l’ingerenza del governo e dei partiti, con la conseguenza negativa di limitarne la funzione di progettazione. Le pratiche clientelari, infatti, finirono con il soffocare ogni progettualità, determinando una visione negativa nell’opinione pubblica nazionale, anche cancellando i grandi risultati che furono comunque conseguiti nella prima fase.
Confrontando gli obiettivi programmatici del Piano Marshall con i risultati effettivamente raggiunti la storiografia ha espresso delle valutazioni sul reale impatto degli aiuti statunitensi sulla realtà politica ed economica dell’europea, dell’Italia e del Mezzogiorno.

Al di là dei risultati economici, il Piano Marshall e la politica che lo ispirava e che era fondata sul principio “più mercato e meno controlli” ha certamente esercitato un’influenza determinante sul successo della ricostruzione post bellica. Gli anni ’30 del 1900 avevano determinato la diffusione negli scambi europei di un regime di autarchia e di immobilismo, tant’è che prima del conflitto, il commercio intraeuropeo rappresentava la metà del commercio totale del continente europeo, ma nel 1947 tale percentuale si era ridotta ad un terzo. Il Piano Marshall, dunque, si è rivelato fondamentale per la ricostituzione del mercato europeo attraverso il ripristino delle vecchie correnti di scambio multilaterale e dei flussi commerciali attuati con gli accordi di pagamento bilaterali che i Paesi europei furono costretti a siglare. Inoltre, l’attuazione dell’ERP costrinse i governi europei anche a programmare la riduzione dei dazi e l’abolizione dei contingentamenti e dei controlli sugli scambi. Anche grazie alla rimozione di tali vincoli l’Europa ottenne importanti effetti indiretti che portarono il processo di crescita nel decennio successivo a livelli mai conosciuti in passato. Infine, è indiscutibile che proprio grazie all’ERP, 16 Paesi europei amici ed ex nemici sedettero attorno allo stesso tavolo per cooperare. Ciò diffuse tra i funzionari e i politici l’uso della negoziazione produttiva se pur a costo di lunghe trattative. Infatti, i Paesi europei furono costretti a cooperare, non solo per un fine comune come la suddivisione degli aiuti, ma anche per perseguire un obiettivo a lungo termine consistente nell’unificazione del mercato europeo.

In Italia gli aiuti del Piano Marshall furono impiegati, innanzitutto, nelle regioni di antica industrializzazione come il Piemonte, la Lombardia e la Liguria che riuscirono a sfruttare pienamente i prestiti per rinnovare impianti ormai obsoleti. Al Piano Marshall, dunque, si deve certamente la modernizzazione dell’apparato produttivo delle aree più sviluppate. Una conferma di ciò si rinviene nel caso della FIAT che chiese 21 miliardi di lire da spendere in macchinari tecnologicamente avanzati e, attivando i propri rapporti internazionali, fu in grado di seguire l’iter della richiesta del prestito anche all’estero e di entrare in contatto preventivamente e direttamente con i futuri fornitori.

Discorso diverso va fatto per la particolare realtà del Mezzogiorno d’Italia dove il Piano Marshall rappresentò lo strumento per avviare lavori pubblici tesi ad attuare quel miglioramento dell’ambiente generale considerato dai nuovi meridionalisti come la premessa indispensabile per l’industrializzazione dell’intera area. Il Mezzogiorno, oltre agli antichi ritardi del settore agricolo, ne presentava altrettanti nel fondamentale settore delle infrastrutture di comunicazione alle quali si erano aggiunte le gravi distruzioni belliche. Il forte ritardo meridionale, poi, era dovuto anche all’insufficiente diffusione e all’alto prezzo dell’energia elettrica e alla scarsa erogazione di credito finanziario. Si può, dunque, ritenere che il Piano Marshall rappresentò per le regioni meridionali lo strumento utile per dare impulso sia all’intervento diretto, sia a quello indiretto, rappresentato dalla Cassa per il Mezzogiorno che trasse il suo primo impulso proprio dal Fondo Lire dell’ERP.

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