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La tutela processuale dei minori

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Il presente lavoro è dedicato all’esame della disciplina processuale relativa alla tutela degli interessi dei minori, con particolare riferimento alla risoluzione delle questioni inerenti l’esercizio della potestà genitoriale.
L’argomento da esaminare impone, necessariamente, di dedicare un primo capitolo del lavoro all’analisi dell’art.38 disp. att. c.c. che delinea l’ambito di competenza giurisdizionale del Tribunale per i Minorenni e del Tribunale Ordinario.

Tale norma dispone che il Tribunale per i minorenni, sezione specializzata del Tribunale Ordinario istituita proprio per garantire la promozione e la tutela degli autonomi diritti del minore, è competente a decidere in relazione a questioni specifiche, adottando i provvedimenti contemplati nell’art. 84 c.c. in tema di ammissione al matrimonio del minore che abbia compiuto sedici anni allorché ricorrano gravi motivi, nell’art. 90 in tema di nomina di un curatore speciale che assista il minore nella stipulazione delle convenzioni matrimoniali, nell’art. 171 in tema di amministrazione del fondo patrimoniale in presenza di minori, con la possibilità di attribuire loro una quota dei beni, nell’art. 194, II comma in tema di costituzione dell’usufrutto a favore di un coniuge sui beni dell’altro in relazione alle necessità ed all’affidamento della prole, nell’art. 250 in tema di “consenso” al riconoscimento del figlio minore da parte di un genitore in caso di opposizione dell’altro genitore, nell’art. 252 in tema di affidamento del figlio naturale ed inserimento nella famiglia legittima, nell’art. 262 in tema di attribuzione del cognome del padre al figlio minore, nell’art. 264 in tema di autorizzazione all’impugnazione del riconoscimento e nomina di un curatore speciale, nell’art. 316 in materia di determinazioni in tema di esercizio della potestà dei genitori, quando fra i genitori vi sia contrasto, nell’art. 317-bis in tema di esclusione della potestà in presenza di figlio naturale, nell’art. 330 in tema di decadenza del genitore dalla potestà, nell’art. 332 in tema di reintegrazione nella potestà del genitore decaduto, nell’art. 333 in tema di provvedimenti alternativi alla decadenza dalla potestà genitoriale e di allontanamento dalla residenza familiare, nell’art. 334 in tema di rimozione dei genitori dall’amministrazione del patrimonio del minore e nomina di un curatore, nell’art. 335 in tema di riammissione nell’esercizio dell’amministrazione, nell’art. 371, II comma in tema di autorizzazione alla continuazione dell’esercizio provvisorio dell’impresa e nell’art. 269, I comma in tema di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturali in caso di minori.

Il Tribunale per i Minorenni che, come statuisce l’art.38 disp. att. c.c. decide in camera di consiglio, non ha la competenza esclusiva a risolvere le questioni che involgono la tutela degli interessi dei minori. Infatti, l’art. 38 disp. att. c.c., dopo aver definito in maniera specifica e dettagliata la competenza del Tribunale per i Minorenni, statuisce che sono emessi dal Tribunale Ordinario i provvedimenti che, pur riguardando la tutela dei minori, non rientrano nella specifica competenza dell’organo specializzato. Pertanto, spetta al Tribunale Ordinario decidere sull’affidamento e sul mantenimento dei figli minori di età in caso di separazione o divorzio, così come spetta al giudice tutelare, che è organo del Tribunale Ordinario, vigilare sull’esercizio della potestà dei genitori, autorizzarli a compiere atti patrimoniali eccedenti l’ordinaria amministrazione in rappresentanza dei figli, nominare, ove necessario, un tutore e sovrintendere alle tutele degli orfani o dei minori i cui genitori siano decaduti dalla potestà o non possano esercitarla. Il Tribunale Ordinario decide seguendo il rito disciplinato dagli artt.706 e ss. c.p.c..

I criteri di ripartizione delle competenze tra gli organi giudiziari legittimati ad emettere provvedimenti civili nell’interesse dei soggetti minori di età, non sono facilmente riconducibili a scelte ponderate e razionali essendo il frutto di una progressiva evoluzione del diritto minorile e della famiglia, che si è tradotta, nel tempo, in modifiche sostanziali della struttura ordinamentale previgente e nell’introduzione di leggi disciplinanti specifiche materie che hanno determinato la frantumazione delle competenze. Pertanto, spesso si verificano incongruenze nel quadro normativo e sovrapposizioni di interventi che possono mettere a rischio proprio il diritto del minore ad una corretta e serena evoluzione della personalità, nell’ambito di un sistema familiare e relazionale affettivamente ed educativamente valido. La frantumazione di competenze tra vari organi giudiziari, poi, oltre a causare problemi di ordine pratico ostacola anche la possibilità di giungere in tempi rapidi a scelte precise di carattere sostanziale e programmatico nel campo del diritto minorile e della famiglia.

Il secondo capitolo è dedicato all’analisi delle norme che disciplinano il procedimento camerale applicato nei giudizi di competenza del Tribunale per i Minorenni e, pertanto, anche in quelli relativi all’esercizio della potestà genitoriale disciplinati dagli art. 316 e 317 bis c.c.. La scelta a favore del rito camerale è legata alla peculiarità della materia minorile che comprende aspetti prevalentemente pratici e comporta richieste fondate sulla conoscenza dei fatti, delle persone, delle relazioni tra persone, dei comportamenti nonchè l’individuazione dei bisogni.
Pertanto, la giustizia minorile non può tralasciare il dovuto pragmatismo e deve risolvere le questioni controverse anche in base a scelte dettate dalla mera opportunità e convenienza, attuate con strumenti che favoriscano l’immediatezza e la celerità delle decisioni. La particolare funzione di garanzia assegnata al Giudice minorile, dunque, impone che il suo intervento si svolga attraverso un iter processuale che consenta di amministrare i poteri-doveri genitoriali e, nello stesso tempo, che consenta di applicare i diritti in conflitto ovvero di riconoscere l’interesse superiore del minore in contrasto con altre pretese posizioni soggettive. Il legislatore dunque, ha optato per un rito, differente da quello ordinario, caratterizzato da minori formalismi e da maggiore celerità, da un lato, e da maggiori poteri e da un più largo margine di discrezionalità dell’organo decidente, dall’altro.

Il rito camerale è sommariamente disciplinato dagli art.737 e ss. del codice di rito. L’art.316 III e V comma c.c., invece, disciplinano in maniera specifica l’iter procedurale da seguire nel caso in cui ci si rivolga al Tribunale per i Minorenni per la soluzione di un conflitto tra i genitori avente ad oggetto questioni di particolare importanza. In tal caso il Giudice non deve risolvere una contestazione relativa a diritti o status ma è chiamato a favorire la ricerca di una soluzione concordata allo scopo di evitare, per quanto possibile, la pronuncia di provvedimenti che si sovrappongono alla volontà dei genitori. L’art. 316 V comma c.c. prevede che il Giudice competente a decidere secondo il rito camerale è il Tribunale per i Minorenni del luogo in cui il minore si trova abitualmente al momento della proposizione della domanda.

Il terzo capitolo è dedicato all’esame delle norme che disciplinano i procedimenti di separazione e di divorzio dinanzi al Tribunale Ordinario. Nel testo originario del codice civile del 1942, il procedimento di separazione era disciplinato nel Capo I, Titolo II, libro IV, Dei procedimenti speciali che riprendeva sostanzialmente le medesime disposizioni contenute nel codice del 1865. Successivamente, con la legge n. 898 del 1970 (L.div.) che ha introdotto il divorzio, il legislatore, attraverso l’art. 4, si è limitato ad estendere l’applicabilità di alcune disposizioni codicistiche dettate in tema di separazione anche al nuovo istituto giuridico. La Legge n. 74 del 1987 modificativa della legge sul divorzio ha determinato un mutamento della disciplina dei due procedimenti. Infatti, il procedimento di divorzio, che fino ad allora si era trovato in una posizione di ancillarità rispetto a quello di separazione, non solo ha acquistato una sua autonomia, ma nei limiti della compatibilità, le nuove disposizioni dettate in tema di divorzio sono state dichiarate applicabili anche al procedimento di separazione. In particolare, l’art. 23 della Legge n. 74 del 1987 ha disposto che le norme di riforma del divorzio si applicano al procedimento di separazione fino all’entrata in vigore del nuovo testo del codice di procedura civile. In attesa della riforma del codice di procedura civile, dunque, il legislatore ha introdotto un modello procedimentale tendenzialmente unitario che tiene conto delle particolarità sostanziali della separazione e del divorzio.

Il legislatore, con un primo intervento ha continuato a mantenere distinti i due procedimenti, dettando apposite norme per l’uno e per l’altro procedimento, pur avvicinando le rispettive discipline. Infatti, l’art. 2, comma, 3 lett. e-ter) del D.L. n. 35 del 14 marzo 2005, convertito con modificazioni nella Legge n. 80 del 14 maggio 2005, ha sostituito gli artt. 706-709 c.p.c., aggiungendo un art. 709-bis c.p.c., successivamente modificato dall’art. 1, comma 4, lettere a) e b), della L. n. 263 del 28 dicembre 2005. L’art. 2, comma 3-bis) dello stesso decreto legge ha sostituito l’art. 4 della legge n. 898 del 1970.
Inoltre, con la legge n. 54 del 2006 recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli” è stato aggiunto un quarto comma all’art. 708 c.p.c. ed è stato introdotto un nuovo art. 709-ter.

Pertanto, nell’arco di pochi mesi si è passati da una normativa, in tema di divorzio, che in base all’art. 23 della Legge del 1987 è dichiarata applicabile al procedimento di separazione, a due distinte normative di cui l’una relativa al procedimento di separazione dettata dall’art. 2, comma, 3 lett. e-ter) del D.L. n. 35 del 14 marzo 2005, convertito con modificazioni nella Legge n. 80 del 14 maggio 2005 e l’altra relativa al procedimento di divorzio dettata dall’art. 2, comma 3-bis dello stesso decreto legge, per giungere, infine, ad una normazione sostanziale in materia di separazione, con modifiche anche della relativa disciplina processuale dichiarata espressamente applicabile anche ai casi di divorzio, di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.
Il terzo capitolo esamina la riforma del procedimento di separazione attuato con il d.lg. n. 35 del 14 marzo 2005, convertito con modificazioni nella Legge n. 80 del 14 maggio 2005.

Il quarto capitolo, invece, è dedicato all’analisi delle innovazioni sostanziali e processuali introdotte dalla legge n. 54 del 2006 recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli” .
La legge in esame, dal punto di vista sostanziale, ha introdotto l’affidamento condiviso, riconoscendo ai minori il diritto alla bigenitorialità. In nome di tale diritto, si può ritenere che a seguito della riforma del 2006 è stato attuato un rovesciamento del sistema precedente. Infatti, gli abrogati art. 155, I comma, c.c. e art. 6 della legge n. 898 del 1970 prevedevano che, in caso di separazione o di divorzio, il giudice dovesse stabilire a quale genitore i figli fossero affidati, adottando contestualmente ogni provvedimento nel loro esclusivo interesse. Vigeva, quindi, un sistema che era fondato sulla previsione in via prioritaria dell’affidamento monogenitoriale ed, in via subordinata, dell’affidamento ad entrambi, allora denominato congiunto.

Con la legge n.54 del 2006, invece, il giudice deve tendere, normalmente, a disporre l’affidamento condiviso e, quando tale affidamento si rivela contrario all’interesse del minore, può provvedere all’affidamento monigenitoriale, motivando tale scelta. La legge n.54 inoltre ha sancito un altro principio fondamentale in base al quale la potestà sui figli è esercitata da entrambi i genitori anche dopo la separazione, e anche quando il giudice o le parti prevedono l’affidamento esclusivo dei figli ad uno solo dei genitori. Ciascun genitore, dunque, ha la possibilità di decidere e di attuare quanto ritiene giusto per il figlio, senza invadere la sfera dell’altro e, perciò, nel rispetto della riservatezza e degli spazi di ciascuno dei due dopo la separazione.
Dal punto di vista processuale la legge n.54 del 2006 ha apportato ulteriori modifiche alla disciplina dei procedimenti di separazione e di divorzio, riformando l’art. 708 c.p.c., aggiungendo l’art. 709 ter c.p.c. ed estendendo la nuova disciplina anche ai procedimenti di nullità, di divorzio e di affidamento dei figli naturali.

L’ articolo 4 della legge n. 54 del 2006, infatti, prevede espressamente che le disposizioni della legge “si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.”
In base a tale norma, dunque, le disposizioni sia sostanziali, sia processuali della legge n. 54 del 2006 si applicano anche figli naturali. Ciò determina il sorgere di un conflitto di competenza.
Infatti, prima che entrasse in vigore la legge n.54 del 2006 il Tribunale per i Minorenni era competente a decidere in tema di procedimenti relativi all’affidamento dei figli naturali secondo il rito camerale. La competenza sulle questioni economiche relative al mantenimento dei figli naturali, invece, era riconosciuta al Tribunale Ordinario che decideva seguendo il rito disciplinato dagli artt.706 e ss. c.p.c..
La legge n.54 del 2006 è intervenuta a mutare l’assetto della competenza del Tribunale per i Minorenni e del Tribunale Ordinario. Infatti, in primo luogo, ha prescritto sia per i figli legittimi, sia per quelli naturali che, quando il giudice provvede sull’affidamento dei figli, fissa “altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento”. Se ne desume che devono essere adottate, contestualmente, nel medesimo provvedimento sia le misure relative all’affidamento dei figli, sia quelle economiche inerenti al loro mantenimento. Da tale disposizione emerge l’impossibilità di mantenere in vigore il regime precedente che, per i figli naturali, affidava al Tribunale per i Minorenni e al rito camerale la decisione sui provvedimenti relativi all’affidamento e al Tribunale Ordinario, e al procedimento di cui agli artt.706 e ss c.p.c., i provvedimenti di carattere economico.

In base alla legge n.54 il medesimo ufficio giudiziario deve provvedere, contestualmente, sull’affidamento e sul mantenimento dei figli naturali. E’ evidente, dunque, che l’entrata in vigore della legge in esame ha posto il problema della individuazione dell’ufficio giudiziario che, in presenza di figli naturali, deve assumere sia le deliberazioni sull’affidamento, sia quelle economiche e del rito che tale ufficio deve seguire.
L’ultimo capitolo è dedicato alla questione di competenza posta dall’art.4 della legge n.54 del 2006. Tale questione ha determinato il sorgere di conflitti negativi di competenza tra Tribunali per i Minorenni e Tribunali Ordinari. In particolare è stato esaminato il conflitto che, nel 2006, ha diviso il Tribunale per i Minorenni e il Tribunale Ordinario di Milano. Il Tribunale per i Minorenni di Milano con il decreto del 12 maggio 2006 ha dichiarato la propria incompetenza funzionale in materia di affidamento e regolamentazione delle visite al minore nel caso di genitori non coniugati, ritenendo competente il Tribunale Ordinario del luogo di residenza del minore. Il procedimento è stato riassunto dinanzi al Tribunale Ordinario di Milano che, a sua volta, si è dichiarato incompetente affermando che è necessario e corretto accedere ad una lettura sistematica della nuova normativa che introduce criteri e principi sostanziali innovativi in materia di affidamento dei figli minori naturali e legittimi e di regolamento dei rapporti economici tra i genitori coniugati e non, in funzione dell’interesse della prole limitandosi, invece, ad introdurre norme di portata ben limitata e specifica per quanto attiene ai profili processuali. Secondo il Tribunale Ordinario di Milano il legislatore ha voluto estendere con massima ampiezza proprio la portata sostanziale di vigenza del dettato riformatore senza affrontare ambiti più vasti ed impegnativi di intervento in materia di unificazione della competenza del giudice della famiglia o, comunque, di unificazione delle competenze relative a controversie fra genitori non uniti in matrimonio.

I conflitti di competenza hanno determinato il ricorso alla Corte di Cassazione che con l’ordinanza 8362 del 2007 ha statuito che in base all’art.4 della legge n.54 del 2006 si deve ritenere sia stata attuata una concentrazione presso il giudice minorile della competenza in materia di provvedimenti relativi ai figli naturali, qualora siano contestualmente richiesti dai genitori non coniugati, sia interventi in merito all’affidamento, sia in merito a questioni economiche e patrimoniali. L’ordinanza della Corte ha anche statuito che il rito applicabile è quello camerale dichiarando che tale rito è compatibile con alcune norme processuali introdotte dalla legge n 54 del 2006.
La stessa Corte di Cassazione nella medesima ordinanza si è soffermata ad esaminare alcuni dei profili di compatibilità del rito camerale con le norme processuali dettate dalla legge n.54 del 2006, tacendo in merito a numerose questioni che, di fatto, hanno reso difficilmente attuabile la concentrazione della competenza presso il Tribunale per i Minorenni.

L’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, malgrado sia stato vivamente contestato dalla dottrina, è stato confermato in due successive ordinanze del 20 settembre 2007 n. 19406 e del 7 febbraio 2008 n. 2966 dove è stato ribadito che la legge 8 febbraio 2006 n. 54 sull’esercizio della potestà in caso di crisi della coppia genitoriale e sull’affidamento condiviso, applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, ha corrispondentemente riplasmato l’art 317 bis c.c. che continua a rappresentare il riferimento normativo della potestà del genitore naturale e dell’affidamento del figlio nella crisi dell’unione di fatto sicchè la competenza ad adottare i provvedimenti nell’interesse del figlio naturale spetta al Tribunale per i Minorenni, in forza dell’art. 38 primo comma disp. att. c.c., in parte qua non abrogato, neppure tacitamente, dalla novella.

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