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Il presente lavoro è dedicato all’analisi della normativa che disciplina l’organizzazione dell’ufficio del magistrato del pubblico ministero. A tale scopo, nel primo capitolo sono state ricostruite le diverse fasi di evoluzione della funzione della pubblica accusa che, secondo parte della dottrina, si è affermata per la prima volta nel diritto romano. Tuttavia, l’ufficio del magistrato del pubblico ministero così come oggi lo conosciamo, con tutte le problematiche relative alla sua natura giuridica, è di diretta derivazione francese. Esso nacque in epoca napoleonica, quando si realizzò pienamente una commistione fra potere accusatorio e potere esecutivo e il procureur du roi, che nel regime assolutistico era, prima, una sorta di controllore dei giudici e, successivamente, un commissarie che si limitava a prendere comunicazione degli atti del giudizio, divenne agente del potere esecutivo.
La legislazione napoleonica influenzò in maniera notevole la disciplina giuridica del processo penale contenuta nei codici sardi del periodo preunitario; pertanto, il magistrato del pubblico ministero sabaudo, pur conservando la posizione soggettiva di magistrato, era un rappresentante attraverso il quale il sovrano vegliava sulla esecuzione delle leggi. E’ evidente, dunque, l’ambiguità dell’organo che, come unità organizzativa, aveva essenzialmente natura amministrativa per il carattere di rappresentatività del sovrano, rivestendo, tuttavia, anche funzioni processuali all’interno del giudizio.
Il primo testo di ordinamento giudiziario del Regno d’Italia cioè il r.d. n.2626 del 6 dicembre 1865 mutuava la disciplina che l’ufficio del magistrato del pubblico ministero aveva ricevuto in Francia stabilendo, all’art.129, che “il pubblico ministero è il rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria, ed è posto sotto la direzione del Ministro della Giustizia”. Le funzioni demandate al magistrato del pubblico ministero e dirette dal potere esecutivo erano di carattere requirente; pertanto, come disponeva l’art.139 dell’ordinamento giudiziario del 1865, consistevano nel ” promuovere la repressione dei reati” e nel vegliare “all’osservanza delle leggi ed alla pronta e regolare amministrazione della giustizia”.
La subordinazione al potere esecutivo veniva giustificata con la considerazione che il Governo, poiché aveva il compito di assicurare la prevenzione e la repressione dei reati, doveva poter dirigere l’apparato incaricato di promuovere siffatta repressione.
Le critiche rivolte all’ordinamento giudiziario del 1865 furono accese. In particolare si faceva notare che il modello cosiddetto francese di magistrato del pubblico ministero, inteso come rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria, entrava in conflitto con la separazione dei poteri teorizzata in epoca liberale e posta alla base dello Stato di diritto. L’aspirazione all’osservanza dei principi di legalità e di uguaglianza nell’esercizio dell’azione portò a contrapporre una cosiddetta concezione italiana del magistrato del pubblico ministero implicante la sottrazione dell’apparato all’influenza del potere esecutivo e la sua configurazione come organo giudiziario soggetto, esclusivamente, alla legge. Non erano ancora passati tre mesi dall’entrata in vigore del r.d. n. 2626 del 1865 recante le norme dell’ordinamento giudiziario, che il Governo, assunse “formale impegno di presentare sollecitamente un progetto di legge per la riforma del magistrato del pubblico ministero”.
Un passo in avanti verso la realizzazione concreta della concezione italiana di magistrato del pubblico ministero è costituito dalla modifica dell’ordinamento giudiziario, realizzata attraverso il r.d. 30 gennaio 1941 n.12. In questo atto normativo, infatti, il magistrato del pubblico ministero non fu più definito come rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria. L’art.69 si limitava a stabilire che “il pubblico ministero esercita sotto la direzione del ministro di grazia e giustizia le funzioni che la legge gli attribuisce”.
Successivamente il r.d.lg. n.511 del 31 maggio 1946 dettato in tema di guarentigie della magistratura, per ridurre l’influenza del potere esecutivo sul magistrato del pubblico ministero, sostituì l’art.69 dell’ord.giud. del 1941. Tale norma fu formulata nel senso che “il pubblico ministero esercita sotto la vigilanza (non più la direzione) del ministro per la grazia e la giustizia le funzioni che la legge gli attribuisce”.
I lavori relativi alla redazione della Carta Costituzionale impegnarono i componenti dell’Assemblea costituente in un dibattito relativo al rapporto tra il magistrato del pubblico ministero e gli altri poteri dello Stato. L’Assemblea dovette scegliere tra due testi: uno era stato proposto dalla Commissione dei settantacinque e disponeva che “il pubblico ministero gode di tutte le garanzie dei magistrati”. L’altro testo consisteva in un emendamento presentato in aula dall’on.Leone il quale proponeva di stabilire che “il pubblico ministero è organo del potere esecutivo”. L’Assemblea finì per votare l’art.107 comma 4 che, a conclusione di una serie di quattro articoli enuncianti le garanzie di indipendenza dei magistrati ordinari, si limita alla statuizione per cui il magistrato del pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario. In tal modo, dunque, non si prese nemmeno in questa occasione una posizione esplicita sul problema del rapporto tra il magistrato del pubblico ministero e i poteri dello Stato.
Per comprendere quale sia il rapporto tra il magistrato del pubblico ministero e gli altri poteri dello Stato non è sufficiente analizzare il solo art..107 comma 4 Cost bensì è necessario procedere ad un’interpretazione sistematica che tenga conto anche di altre statuizioni della Carta costituzionale.
E’ possibile, pertanto, concludere che, al di là delle intenzioni dei componenti dell’Assemblea costituente, la Costituzione repubblicana esige che al magistrato del pubblico ministero, almeno per quanto riguarda l’esercizio dell’azione penale, la legge assicuri l’indipendenza da ogni altro potere dello Stato. L’unica deroga consentita a questa regola è rappresentata dal fatto che per i magistrati con funzioni requirenti non vale la regola sancita dall’art.107 comma 3 secondo la quale essi si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana il legislatore ha provveduto ad assicurare alla magistratura requirente la medesima indipendenza esterna garantita alla magistratura giudicante.
Nel secondo capitolo del presente lavoro si delinea l’apparato organizzativo dell’ufficio del magistrato del pubblico ministero attraverso l’analisi delle norme della Costituzione, del codice di procedura penale e dell’ordinamento giudiziario, così come interpretate dalla giurisprudenza.
L’art.51 c.p.p. e l’art.70 ord.giud. consentono di definire la mappa degli uffici del magistrato del pubblico ministero e le rispettive funzioni. Da queste disposizioni si evince che, in linea di massima, vi è una corrispondenza tra tali uffici e gli uffici del giudice presso i quali sono istituiti. Pertanto, gli uffici del magistrato del pubblico ministero hanno una competenza di secondo grado o derivata che è più esatto definire “legittimazione”. Ciascun ufficio di Procura della Repubblica è composto dal titolare, cioè il Procuratore della Repubblica, e da un numero variabile di magistrati addetti che agiscono come sostituti.
Quanto alle funzioni del magistrato del pubblico ministero si deve precisare che il codice attualmente vigente tende a distinguere nettamente il ruolo di questo magistrato nel momento costitutivo dell’accusa mediante le indagini preliminari e in quello successivo della sollecitazione del giudizio sull’imputazione formulata, quante volte non ricorrano i presupposti per la richiesta di archiviazione. Infatti, il magistrato del pubblico ministero, durante le indagini preliminari cioè nella fase finalizzata alla ricerca e valutazione delle determinazioni inerenti all’esercizio o meno dell’azione penale è soggetto delle indagini, quindi, deve svolgere una funzione inquirente che consiste nell’indagare sulla notizia di reato effettuando anche accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini. Successivamente, poi, il magistrato del pubblico ministero è organo preposto all’esercizio dell’azione penale e nella fase del processo vero e proprio assume un ruolo requirente dal momento che ha il compito di rivolgere richieste al giudice e di elaborare e dedurre in dibattimento il materiale probatorio.
I magistrati della Procura della Repubblica e, limitatamente ai reati di criminalità organizzata, i magistrati della direzione distrettuale antimafia, poi, svolgono le funzioni inquirenti e requirenti per l’intero primo grado di giudizio. Invece, i magistrati della Procura Generale della Repubblica svolgono le funzioni esclusivamente requirenti nei gradi di impugnazione.
Premesse le necessarie informazioni relative alla struttura organizzativa e alle funzioni dell’ufficio del magistrato del pubblico ministero è possibile procedere all’analisi del rapporto esistente tra i diversi uffici del magistrato del pubblico ministero attraverso lo studio delle norme del codice di procedura penale dedicate al tema del coordinamento tra gli uffici del magistrato del pubblico ministero e del collegamento tra le indagini. Con il temine “coordinamento” il legislatore intende far riferimento a diverse forme di gestione delle indagini che si rendono necessarie non solo nel caso delle indagini collegate ma anche in altre circostanze. Infatti, il termine “coordinamento”, secondo l’impostazione del codice di procedura penale esplicitata nella Relazione al progetto preliminare, non serve solo ad indicare iniziative poste in essere per agevolare, mediante trasmissione di informazioni e successivi contatti tra i vari uffici, lo svolgimento di indagini alle quali siano interessati più titolari di procedimenti ma anche a precisare che rientra nei compiti della procura generale eliminare tutte le condizioni di impasse in cui può venire a trovarsi il procedimento per le indagini preliminari.
Il coordinamento, dunque, consente di regolare i rapporti intersoggettivi ed interorganici al fine di garantire una corretta gestione della funzione, senza limitare le prerogative di indipendenza, autonomia, autogoverno e inamovibilità riconosciute dalla Costituzione al magistrato del pubblico ministero. Il coordinamento si attua mediante l’avocazione, un meccanismo che consiste nell’adozione di un provvedimento sotto forma di decreto motivato per effetto del quale la titolarità delle indagini preliminari viene sottratta all’ufficio che dovrebbe o avrebbe dovuto svolgerle e viene assunta da un altro ufficio del magistrato del pubblico ministero. Inoltre, il Procuratore generale procede al coordinamento anche quando risolve i contrasti positivi e negativi che possono sorgere tra diversi uffici della Procura della Repubblica, attraverso l’attuazione dell’ art.54 c.p.p., disciplinante il caso di contrasto negativo che si verifica quando il magistrato che ha ricevuto gli atti da quello che lo ritiene competente è dell’avviso che debba procedere, invece, proprio l’ufficio che glieli ha trasmessi; vi è poi l’art.54 bis c.p.p. che, invece, è dettato in tema di contrasto positivo tra uffici del magistrato del pubblico ministero. L’art.54 quater, infine, mediante la richiesta da parte della difesa, di trasmissione degli atti all’ufficio del magistrato del pubblico ministero presso il giudice che, in caso di esercizio dell’azione penale, sarà competente, introduce una sorta di “sindacato esterno” rispetto alla legittimazione del magistrato del pubblico ministero.
Il terzo capitolo del lavoro è dedicato al tema specifico dell’organizzazione interna dell’ufficio del magistrato del pubblico ministero che è disciplinata dalle norme dell’ordinamento giudiziario e del codice di procedura penale, nonché dalla normativa secondaria costituita dalle delibere e dalle circolari del CSM.
In sintesi si può affermare che,tenuto conto di tutta la normativa, l’ufficio del magistrato del pubblico ministero ha carattere impersonale; pertanto, il capo dell’ufficio che ne è il titolare ha le funzioni di direzione dell’ufficio e di organizzazione dell’attività.
Nell’esercizio di tali funzioni il titolare dell’ufficio non instaura con i componenti dello stesso un rapporto di dipendenza basato su un atto di delega, bensì un rapporto di sovraordinazione basato su un atto di designazione. La sovraordinazione si manifesta, in concreto, nel fatto che i componenti dell’ufficio del magistrato del pubblico ministero sono tenuti a rispettare le direttive con le quali il titolare dell’ufficio, sentiti gli altri magistrati, può individuare preventivamente i criteri generali da seguire nell’esercizio dell’attività, precisando anticipatamente che l’inosservanza degli stessi può comportare la revoca della designazione. Tali direttive non possono assolutamente indicare criteri relativi ai casi singoli.
Tutto ciò trova conferma nell’art.70 ord. giud., ma anche nell’art.53 c.p.p. che sancisce l’autonomia del magistrato del pubblico ministero in udienza. Al fine di salvaguardare tale autonomia lo stesso art.53 al comma 2 prevede che la sostituzione in udienza del rappresentante ad opera del titolare dell’ufficio del magistrato del pubblico ministero, può avvenire solo in situazioni tassativamente indicate dalla legge. L’art.570 c.p.p., invece, delimita il potere di impugnazione del magistrato del pubblico ministero ribadendo l’impersonalità dell’ufficio e stabilendo che legittimati ad impugnare nell’interesse dell’accusa sono il magistrato del pubblico ministero che nel dibattimento ha presentato le conclusioni, il procuratore della repubblica ed il procuratore generale presso la Corte d’Appello.
L’art.3 disp.att. del codice di procedura penale, infine, per garantire nei limiti del possibile, che lo svolgimento del ruolo del magistrato del pubblico ministero assuma la massima incisività, provvede ad assicurare la continuità dell’esercizio delle funzioni durante tutto il procedimento, coerentemente con l’art.570 comma 3 c.p.p. in tema di delegazione.
La sovraordinazione che, secondo l’interpretazione fornita dal CSM, caratterizza il rapporto interno all’ufficio del magistrato del pubblico ministero non convince la giurisprudenza e parte della dottrina che sono intervenute soprattutto sul tema della revoca della designazione.
Il quarto capitolo del lavoro è dedicato all’analisi della legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario approvata nel luglio 2005 . In questa legge, infatti, sono contenute delle direttive relative alla riorganizzazione dell’ufficio del magistrato del pubblico ministero alle quali è necessario prestare la dovuta attenzione. Infatti, dall’art.5 della legge n.150 del 2005 si evince che il legislatore intende garantire e bilanciare la tendenziale uniformità di indirizzo dell’azione penale e la diffusività del suo esercizio. A tale scopo l’ufficio del magistrato del pubblico ministero è ridisegnato in chiave verticistica e gerarchica, limitando, sia l’indipendenza esterna, sia l’indipendenza interna di ciascun componente. Dal punto di vista dell’indipendenza esterna, infatti, la legge delega prevede l’abrogazione dell’art.7 ter comma 3 ord.giud. a seguito della quale il titolare dell’ufficio è tenuto solo a comunicare al C.S.M. i criteri per l’organizzazione dell’ufficio stesso e l’assegnazione degli affari. In tal modo il C.S.M. è privato del potere di dettare, con le circolari sulla formazione delle tabelle degli uffici giudiziari, le regole ed i principi che devono caratterizzare l’organizzazione e non è più tenuto ad approvare i singoli moduli organizzativi.
Inoltr,e nell’art.2 comma 4 lettera g) della legge delega è disposto che al Procuratore generale presso la Corte d’Appello si deve conferire il potere di acquisire dalle procure del distretto dati e notizie al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale. Vi è, inoltre, la disposizione logicamente correlata che introduce la previsione della relazione che in proposito il procuratore generale del distretto deve fare annualmente oltre che quando lo ritenga necessario al procuratore generale della Cassazione. Questo sistema è espressione di una sorta di potere di sindacato sulle modalità di organizzazione dell’ufficio riconosciuto al procuratore generale presso la Corte d’Appello e presso la Corte di Cassazione, sia pure mediato attraverso la verifica del modo in cui, in concreto, viene esercitata l’azione penale.
Dal punto di vista dell’indipendenza interna le limitazioni fondamentali all’indipendenza del magistrato del pubblico ministero si evincono, innanzitutto, dal fatto che la delega espressamente riconosce come unico titolare dell’azione penale il Capo dell’Ufficio il quale la esercita “… sotto la sua personale responsabilità …”; i magistrati componenti dell’ufficio non sono definiti sostituti bensì procuratori aggiunti e non sono destinatari di un atto di designazione bensì, di un atto di delega. Essi, dunque, sono nuovamente dei meri delegati del titolare dell’ufficio inquirente. Naturalmente le limitazioni che la legge delega n.150 del 2005 intende imporre all’indipendenza esterna ed interna dei magistrati dell’ufficio del pubblico ministero saranno concretamente individuate solo mediante i decreti delegati. Pertanto, essendo tale delega assolutamente generica è auspicabile che la sua attuazione non venga esercitata in modo tale da interdire gli spazi di necessaria autonomia del rappresentante dell’ufficio durante l’udienza.