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Uniti nella diversità. I diritti delle persone LGBT
Questo saggio vuole aprire una discussione, sia storica sia attuale, sulla condizione delle coppie omosessuali in Europa e sulla possibilità di vedere difesi i loro diritti. In Italia, le persone lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transgender) sono, ancora oggi, “soggetti costituzionalmente deboli” per ragioni, prima ancora che di carattere sociale, culturali.
Le politiche europee, da tempo, svolgono un ruolo trainante verso la promozione e difesa di “nuovi diritti” miranti alle pari opportunità e alla parità di trattamento tra uomini e donne senza distinzione di orientamento sessuale, favorendo così la circolazione delle idee all’interno dell’Unione europea.
L’attenzione verso il riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali sta cambiando i criteri di governance nazionali: “fare politica”, oggi, significa conoscere le varie realtà economico-sociali europee, avendo una buona conoscenza dei sistemi di welfare a livello internazionale.
In Italia, il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali non è ancora un dato acquisito: è una conquista che ogni giorno deve essere rinnovata e difesa.
Dati del libro
Titolo: Uniti nella diversità. I diritti delle persone LGBT
Autore: Carollo Vincenzo
Anno: 2013
Editore: Torri del Vento
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Il ruolo dei Consorzi nella tutela delle DOP e delle IGP: l’attuazione della normativa comunitaria e nazionale
Prendo spunto dall’articolo “Agroalimentare, filiera da difendere” di Valerio Castronovo pubblicato su Il Sole 24 ore del 29 u.s. per fare alcune considerazioni in merito al ruolo svolto dai Consorzi di tutela dei prodotti a denominazione e a indicazione geografica protetta, soprattutto con riferimento al vino.
Le prime righe dell’articolo sono eloquenti “Nel 2012 l’industria agroalimentare ha aumentato il suo export dell’8 per cento e detiene, nell’Unione europea, il record per numero di prodotti a denominazione d’origine protetta e a indicazione geografica protetta.” Buona parte del volume dell’esportazione agroalimentare è costituita proprio dal vino. Ma quanti consumatori sono davvero ben informati in merito al significato e all’importanza delle denominazioni d’origine (DO) e delle indicazioni geografiche ( IG) protette?
La denominazione d’origine e l’indicazione geografica sono strumenti impiegati per garantire una particolare tutela giuridica a prodotti con qualità, notorietà e caratteristiche connesse a determinate aree geografiche di cui hanno il diritto di portare il nome, in via esclusiva.
Le norme che disciplinano tali denominazioni sono finalizzate ad assicurare un uso corretto del nome geografico, che identifica il territorio di origine, associato al nome del prodotto, tutelando i produttori e i consumatori da eventuali comportamenti sleali posti in essere da alcune imprese che operano in territori diversi. Si tratta di norme comunitarie e nazionali che concorrono a formare una disciplina articolata e complessa, spesso incerta, integrata da numerosi regolamenti e circolari ministeriali tra i quali è poco agevole districarsi per gli operatori del settore, che preferirebbero di gran lunga investire tutte le energie nel processo produttivo.
Peraltro, anche la burocratizzazione dei procedimenti di controllo tende a scoraggiare i produttori, inducendoli, in alcuni casi limite, persino, a preferire il declassamento dei vini certificati. Fortunatamente, però, si sta diffondendo l’idea che, unendo le forze, si possono raggiungere ottimi risultati anche in termini di tutela delle denominazioni e delle indicazioni e, dunque, della qualità.
La normativa comunitaria si snoda intorno al regolamento n.1234/2007 (meglio noto come regolamento unico OCM) in tema di “Organizzazione comune dei mercati agricoli e disposizioni specifiche per taluni prodotti agricoli” tra cui, appunto, anche il vino. In attuazione della normativa comunitaria, il legislatore italiano ha adottato il d.lgs. n.61 del 2010 recante norme per la “Tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei vini” seguito dai decreti applicativi. Tale decreto, dopo aver fornito la definizione di DOP e IGP, disciplina l’impiego delle denominazioni e delle indicazioni, regola la procedura di riconoscimento che ha come momento centrale la predisposizione di un disciplinare di produzione il cui contenuto è dettagliatamente indicato dal legislatore e introduce uno strutturato sistema di controllo e di vigilanza.
Il controllo è esercitato da autorità pubbliche e da enti privati certificati che, per la loro stessa funzione, sono indipendenti dai diretti interessati ed è finalizzato a verificare il rispetto del disciplinare di produzione da parte dei viticoltori, dei vinificatori e degli imbottigliatori. L’attività di vigilanza, successiva al controllo e riferita alla fase della commercializzazione del vino nelle sue molteplici forme, è esercitata dagli stessi produttori, attraverso i Consorzi di tutela. Infatti, l’art.17 del d.lgs. n. 61 del 2010 prevede che per ciascuna DO e IG possa essere costituito, ad iniziativa dei soggetti interessati, un Consorzio di tutela che può avanzare proposte di disciplina regolamentare e svolgere compiti consultivi relativi al prodotto interessato e collaborativi, nell’applicazione della legge. Inoltre, può espletare attività di assistenza tecnica, di proposta, di studio, di valutazione economico-congiunturale della DOP o IGP, nonché ogni altra attività finalizzata alla valorizzazione del prodotto sotto il profilo tecnico dell’immagine.
Il Consorzio collabora, secondo le direttive impartite dal Ministero, alla tutela e alla salvaguardia della DOP o della IGP da abusi, atti di concorrenza sleale, contraffazioni, uso improprio delle denominazioni tutelate e comportamenti comunque vietati dalla legge e coopera con le regioni e le province autonome per lo svolgimento delle attività di loro competenza. Infine, svolge le funzioni di tutela, di promozione, di valorizzazione, di informazione del consumatore e di cura generale degli interessi della relativa denominazione, nonché azioni di vigilanza da espletare prevalentemente alla fase del commercio, in collaborazione con l‘Ispettorato Centrale della tutela della Qualità e Repressione Frodi dei prodotti agro-alimentari (ICQRF) e in raccordo con le regioni e le province autonome.
Come si evince dal combinato disposto dei commi I e IV dell’art.17 del d.lgs. n.61 del 2010, i Consorzi di tutela che rappresentino almeno il 40 per cento dei viticoltori e almeno il 66 per cento della produzione certificata di competenza dei vigneti dichiarati a DO o IG negli ultimi 2 anni, possono conseguire il riconoscimento erga omnes da parte del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (MIPAAF). In tal modo essi possono esercitare le proprie funzioni istituzionali ponendo in essere atti vincolanti per tutti i soggetti inseriti nel sistema dei controlli della DOP o IGP, seppur non aderenti al Consorzio stesso.
Come si è detto, l’attività di vigilanza é esplicata dai Consorzi, prevalentemente, nella fase del commercio e consiste nella verifica che le produzioni certificate rispondano ai requisiti previsti dai disciplinari e che, prodotti similari, non ingenerino confusione nei consumatori e non rechino danni alle produzioni DOP e IGP.
Tale attività è svolta dai Consorzi, attraverso gli agenti vigilatori che, come disposto dal Decreto dipartimentale del 06.11.2012, instaurato un rapporto di lavoro con i Consorzi stessi, sono iscritti all’Albo nazionale degli agenti vigilatori o all’Albo degli agenti vigilatori con qualifica di agente di pubblica sicurezza, tenuti presso il MIPAAF. Dalla rassegna normativa che precede si evince agevolmente che i Consorzi di tutela che riuniscono i soggetti inseriti nel sistema dei controlli delle DO e delle IG, soprattutto quando hanno il riconoscimento erga omnes, svolgono un ruolo fondamentale. E i risultati finora raggiunti dall’attività di alcuni di essi sono molto interessanti, soprattutto con riferimento alla tutela delle DOP e delle IGP in ambito internazionale dove la salvaguardia delle denominazioni è meno efficace perché passa attraverso la stipula e l’adesione ad accordi multilaterali con ciascuno dei Paesi nei quali il prodotto italiano è esportato.
A tal proposito è emblematica l’iniziativa assunta dal Consorzio della Docg Asolo Prosecco Superiore, dal Consorzio della Docg Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore e dal Consorzio di tutela della Doc Prosecco che agli inizi del mese di Luglio 2013 hanno incontrato l’Intergruppo Vini del Parlamento Europeo al fine di sollecitare la conclusione di accordi volti a proteggere più efficacemente la loro denominazione nei Paesi Terzi. Questi consorzi, peraltro, hanno deciso di unire le proprie forze e creare una società che tuteli in modo unitario e rappresentativo a livello internazionale le tre realtà consortili del Prosecco. Inoltre hanno costituito una autentica “pattuglia” di agenti vigilatori alcuni dei quali in condivisione con il Consorzio di tutela del Prosciutto S. Daniele.
La strada da fare, tuttavia, è ancora molto lunga e impervia. Infatti, l’elenco aggiornato al luglio 2013 dei Consorzi di tutela vini pubblicato dal MIPAFF comprende numerosi enti, la maggior parte dei quali, per ragioni di bilancio, non riesce ad essere effettivamente operativo. Inoltre, spesso accade che le iniziative assunte dai Consorzi non siano sufficientemente pubblicizzate e rese note ai consumatori che, invece, è doveroso che sappiano quanto impegno c’è dietro il conseguimento e la tutela di una denominazione e di una indicazione geografica protetta.
In questo contesto è senz’altro degna di nota l’iniziativa formativa promossa in maniera pioneristica dal Sannio Consorzio Tutela Vini presieduto da Libero Rillo e diretto da Nicola Matarazzo che ha sede a Benevento e si occupa della valorizzazione, tutela e cura generale degli interessi connessi alle denominazioni Aglianico del Taburno DOCG DOP, Falanghina del Sannio DOP e Sannio DOP.
Il Consorzio, costituito fin dal 5 febbraio 1999, conta quasi 400 soci, ha conseguito il riconoscimento erga omnes con D.M. n.6965 del 19 aprile 2013 pubblicato in G.U. n.104 del 6 maggio 2013 e, in un’area geografica che, da un punto di vista economico, non è certo tra le più sviluppate del Paese, ha svolto un’intensa attività finalizzata a far sì che le proprie denominazioni e indicazioni raggiungessero il massimo livello di qualità. I consorziati, poi, non volendo rischiare di vedere i loro sforzi vanificati da comportamenti scorretti di altri operatori presenti sul mercato, hanno deciso di istituire la Sannio Wine & Food Academy e hanno predisposto un percorso didattico specifico al fine di formare, con la collaborazione del MIPAAF, gli agenti vigilatori.
L’attività svolta da tali agenti non è molto nota. Essa consiste nel dare esecuzione ad un programma di verifiche predisposto dal Consorzio e mirato a vigilare sulla fase di commercializzazione delle denominazioni tutelate, nelle sue diverse forme. L’agente vigilatore, che può acquisire anche la qualifica di agente di pubblica sicurezza, deve innanzitutto controllare l’etichetta apposta sulle bottiglie di vino che si fregiano della DOP e dell’IGP del Consorzio di riferimento e verificare che l’uso di tali denominazioni sia legittimo. Inoltre deve segnalare alle autorità competenti ogni indizio di illecito nella vendita del vino DOP o IGP. Si tratta di una sorta di 007 che, per conto del Consorzio, svolge un’attività sia preventiva, sia di rilevazione di eventuali illeciti. Una nuova figura professionale che, dotata del necessario bagaglio di conoscenze giuridiche, è destinata a svolgere un ruolo fondamentale per la tutela dei produttori e dei consumatori in un momento in cui la crisi economica impone di investire soprattutto sulla qualità.
La proposizione di due domande non cumulabili comporta il rigetto di entrambe
Il Tribunale di Benevento con una recentissima sentenza ha affrontato il tema degli effetti della proposizione, nel medesimo giudizio, di due domande non cumulabili. La controversia ha avuto ad oggetto un contratto preliminare di compravendita del pacchetto azionario di una società. Nel contratto la società cedente si impegnava, oltre che a stipulare il contratto definitivo, anche a manlevare la società cessionaria da qualsiasi eventuale sopravvenuta perdita, spesa, costo o danno derivante dall’esistenza di passività non evidenziate nel bilancio. Nel medesimo contratto le parti avevano anche convenuto il pagamento di una penale in caso di inadempimento delle obbligazioni contrattuali.
La società cessionaria lamentava di aver subito perdite connesse a partire debitorie non evidenziate dal cedente e, dunque, tenuto conto delle citate clausole contrattuali, adiva l’autorità giudiziaria per conseguire, sia la condanna della società cedente all’adempimento dell’obbligazione di garanzia, sia la condanna al pagamento della penale da inadempimento contrattuale.
Il Tribunale di Benevento ha rilevato che, come è noto, ai sensi dell’art. 1383 c.c. “Il creditore non può domandare insieme la prestazione principale e la penale, se questa non è stata stipulata per il semplice ritardo.”
Infatti è necessario evitare che il contraente non inadempiente consegua due volte la tutela dell’unico interesse perseguito.
Il giudice, dunque, aderendo all’orientamento della Corte di Cassazione (Corte Cass. sentenza n. 5887del 2001), ha rigettato entrambe le domande attoree precisando che “la proposizione di due domande non cumulabili comporta il rigetto di entrambe, atteso che non è consentito all’autorità giudiziaria di operare una scelta in ordine a quale domanda dare seguito, scelta che solo la parte può operare”.
La Corte d’Appello di Napoli a proposito della ricostruzione degli atti contenuti nei fascicoli d’ufficio smarriti
Con una recente sentenza (n.698 del 21 febbraio 2013) la Corte d’Appello di Napoli ha affrontato il tema della ricostruzione del verbale di udienza, andato smarrito.
Nel corso del giudizio di primo grado costituito da un’opposizione ad un decreto ingiuntivo, veniva a mancare una delle due parti opponenti. Per effetto di tale evento che era stato reso noto in udienza, il giudice aveva dichiarato interrotto il giudizio. Tuttavia, come purtroppo accade nelle cancellerie degli uffici giudiziari, era andato smarrito il fascicolo d’ufficio nel quale, come dispone l’art.168 c.p.c., erano inseriti anche i processi verbali d’udienza di cui le parti non avevano estratto copia. Pertanto, nel caso di specie, era venuta meno la prova che il difensore costituito della parte venuta a mancare avesse effettivamente reso noto l’evento in quella specifica udienza e che, dichiarato interrotto il giudizio sulla base di tale presupposto, fosse decorso il termine per la riassunzione da parte dell’altro opponente.
Per effetto della mancata riassunzione, il giudice di primo grado ha dichiarato estinto il giudizio, sulla base di una ricostruzione del verbale d’udienza effettuata attraverso l’acquisizione della copia del ruolo d’udienza dal quale si evinceva solo l’avvenuta dichiarazione di interruzione del giudizio. Il giudice non aveva ritenuto necessario acquisire elementi di sorta circa l’esistenza della dichiarazione della morte della parte in udienza.
Tenuto conto dell’evidente nocumento recato da tale sentenza all’opponente, quest’ultimo l’ha impugnata dinanzi alla Corte d’Appello di Napoli che ha censurato il provvedimento, intervenendo sul tema della ricostruzione degli atti contenuti nel fascicolo d’ufficio andato smarrito, con particolare riferimento ai verbali d’udienza, dei quali non sempre le parti estraggono copia.
Nel nostro ordinamento la questione è disciplinata dal RD del 15 novembre 1925 n.2071 che, tuttavia, trova applicazione solo in caso di eventi eccezionali come terremoti, inondazioni o altre pubbliche calamità o tumulti popolari. Tale legge dispone che il presidente del Tribunale, su ricorso dell’interessato, il quale provi che la distruzione degli atti o documenti sia avvenuta nelle circostanze indicate, può ordinare che le copie occorrenti per sostituire gli atti e i documenti distrutti, se l’originale o altre copie di essi si trovino depositati in pubblici archivi, siano dai depositari rilasciate in carta libera con esenzione da qualsiasi tassa o diritto, facendosi espressa menzione del motivo per il quale vengono rilasciati in esenzione da tasse.
Nei numerosi casi in cui il RD del 1925 non può trovare applicazione, come statuito dalla Corte di Cassazione (da ultimo si veda Corte Cass. sentenza n. 9269 del 19.04.2010), mancando la previsione di uno specifico procedimento nella disciplina del processo civile, è possibile applicare analogicamente le norme di cui agli artt.112 e 113 c.p.p..
Tenuto conto di ciò, la Corte d’Appello di Napoli, nella sentenza in esame ha rilevato che la ricostruzione degli atti processuali e, dunque, anche dei verbali d’udienza, qualora, come nel caso esaminato, non siano disponibili copie, avviene ai sensi dell’art.113 c.p.p. ove è stabilito che il giudice, anche di ufficio, deve accertare il contenuto dell’atto mancante e stabilire con ordinanza se e in quale tenore esso deve essere ricostituito.
L’accertamento può avvenire attraverso la minuta dell’atto mancante, riconosciuta come propria dal giudice che l’ha stesa. Laddove quest’ultima non sia reperibile, il giudice dispone con ordinanza la rinnovazione dell’atto mancante, se necessaria e possibile, prescrivendone il modo ed eventualmente indicando anche gli altri atti che devono essere rinnovati.
Secondo la Corte, di sicuro, la ricostruzione effettuata attraverso l’impiego del ruolo d’udienza è censurabile in quanto non vi è certezza in merito all’assoluta corrispondenza tra quanto in esso riportato e gli avvenimenti processuali. Pertanto, “il potere discrezionale di cui gode il giudice nello stabilire se ed in quale tenore l’atto deve essere ricostruito come riconosciuto dalla norma processuale penalistica, incontra inevitabilmente il limite rappresentato dalla effettività e attendibilità intrinseca della ricostruzione, risolvendosi altrimenti in arbitrio”.
La Corte d’Appello, dunque, sulla base di tale considerazione ha dichiarato nulla la sentenza dichiarativa di estinzione del giudizio di primo grado e ha rimesso la causa al primo giudice in base all’art.354 II comma c.p.c.
La responsabilità civile del professionista delegato per le vendite ai sensi dell’art.591 bis c.p.c.
La disciplina dell’esecuzione forzata, sin dal 1998, prevede che il giudice dell’esecuzione possa delegare lo svolgimento delle operazioni di vendita forzata a professionisti esterni. In un primo momento la delega per la vendita di beni immobili e mobili registrati poteva essere conferita solo ai notai. La riforma delle leggi n. 80 e 263 del 2005 ha ampliato la platea dei professionisti ai quali può essere conferita la delega, che è stata parzialmente modificata nell’oggetto.
Ciò anche al fine di accelerare la definizione delle procedure esecutive immobiliari e, nel contempo, garantire una maggiore trasparenza nella loro conduzione.
L’art.591 bis II comma c.p.c. definisce l’ambito oggettivo della delega. Dall’esame della disposizione emerge che lo svolgimento delle attività delegate richiede al professionista la disponibilità di una struttura organizzata al fine di garantire il migliore espletamento dell’incarico che è senz’altro impegnativo.
Nulla il codice dispone in merito alla qualificazione giuridica del delegato.
Secondo parte della dottrina egli è un ausiliario del giudice, mentre, seconda altra dottrina, è un suo sostituto.
La legge del 1998 aveva indotto a definire il notaio delegato come ausiliario del giudice ai sensi dell’art.68 c.p.c. . Tuttavia, secondo parte della dottrina, il rapporto del delegato con il giudice non ha carattere meramente accessorio, collaterale e occasionale. Il professionista è designato dal giudice affinchè svolga attività che, di norma, competono a quest’ultimo e, quindi, in sua sostituzione. Pertanto, secondo la tesi in esame, l’art.68 c.p.c. pare difficilmente applicabile in quanto il giudice affida al delegato compiti che potrebbe tranquillamente svolgere in autonomia. Si ritiene, dunque, che il delegato sia un sostituto del giudice tanto più che assume la qualifica di pubblico ufficiale ai sensi dell’art.357 c.p. in quanto svolge attività di rilevanza pubblicistica.
Altrettanto controverso è il regime della responsabilità civile, penale e contabile del professionista delegato per la vendita.
Con particolare riferimento alla responsabilità civile si discute se essa si configuri in termini di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art.2043 c.c., oppure in termini di responsabilità contrattuale. A favore della natura contrattuale della responsabilità, infatti, si è sostenuto che il professionista delegato, pur essendo un pubblico ufficiale, resta un soggetto privato che svolge un’attività professionale ai sensi degli artt.2229 e ss. c.c. . Pertanto la delega potrebbe dar vita ad un rapporto analogo a quello che nasce dal contratto d’opera professionale.
Il Tribunale di Avellino con un’ordinanza del 17 ottobre 2012 resa nell’ambito di un procedimento sommario proposto ai sensi dell’art.702 bis c.p.c. , ha affrontato entrambe le questioni finora accennate. Il caso controverso riguarda la responsabilità di un notaio delegato il quale, nel corso dell’udienza in cui il Giudice dell’esecuzione ha dichiarato esecutivo il piano di riparto delle somme ricavate dalla vendita forzata dell’immobile pignorato, ha dichiarato che gli importi depositati su alcuni libretti erano stati sottratti alla sua disponibilità da un collaboratore che aveva provveduto ad autodenunciarsi.
Il notaio, dunque, dichiarava di non essere in condizione di conferire gli importi dovuti al creditore il quale, inviata regolare lettera di messa in mora al professionista e alla compagnia assicurativa per la responsabilità civile, non conseguiva alcun riscontro.
Dopo una procedura esecutiva lunghissima, per il creditore il momento dell’effettivo recupero del credito si allontanava nuovamente. Attesa la mancanza di disponibilità del professionista delegato e della sua assicurazione a farsi carico delle conseguenze dell’accaduto, si rendeva necessario percorrere una via giudiziale che, al più presto possibile, permettesse di conseguire un titolo esecutivo e, nel contempo, assumere le iniziative necessarie ad evitare gli effetti negativi della scelta del professionista di rendersi impossidente.
A seguito di un giudizio sommario proposto ai sensi dell’art.702 bis c.p.c. contro il notaio il quale ha esteso il contraddittorio al proprio collaboratore, alla compagnia assicurativa e alla banca presso la quale erano aperti i libretti di deposito, il problema è stato risolto nel giro di un anno.
Infatti, il Tribunale di Avellino, in primo luogo ha separato dal giudizio principale, quello relativo all’accertamento delle responsabilità tra il professionista delegato, il proprio collaboratore e la Banca, da svolgersi con rito ordinario. Inoltre, ha accolto il ricorso del creditore, condannando il Notaio delegato e, in sua manleva, la compagnia assicurativa, a pagare gli importi dovuti e le spese legali.
Il Tribunale, nell’ordinanza dell’ottobre 2012 ha osservato che “il notaio delegato delle operazioni di vendita è un ausiliario del giudice ed in tale veste svolge una funzione pubblica finalizzata all’esatta esecuzione della vendita forzata. Nello svolgimento di tale incarico il notaio delegato deve operare con la diligenza qualificata richiesta dalla funzione ai sensi dell’art.1176 c.c.”. Nel caso di specie ciò non è accaduto in quanto il notaio ha fatto confluire sugli stessi libretti, importi relativi a diverse procedure esecutive creando una iniziale promiscuità che ha reso più difficoltosa e meno trasparente la gestione delle procedure.
Inoltre, il notaio non ha impedito al suo collaboratore, soggetto estraneo alla procedura, di operare sui libretti. Egli avrebbe dovuto provvedere personalmente al versamento degli assegni e verificare periodicamente la situazione di ciascuno dei libretti.
Atteso che, come ha rilevato il Tribunale di Avellino, l’attività svolta dal notaio delegato per la vendita non richiede una particolare competenza tecnica in ragione della capacità del professionista, la diligenza richiesta deve essere la migliore possibile e il professionista risponde anche per colpa lieve. Né tale colpa è eliminata dal fatto che l’ammanco è stato determinato dal collaboratore, in quanto il notaio ha deciso liberamente di avvalersi del suo ausilio e avrebbe dovuto quantomeno sorvegliarne l’operato.
La Corte di Cassazione e l’anatocismo bancario: sentenza n.798 del 2013
Con la sentenza n.798 del 15 gennaio 2013 la sez. III civile della Corte di Cassazione ha nuovamente affrontato il tema dell’anatocismo e delle condizioni per proporre l’azione di nullità della clausola che pattuisce gli interessi e la domanda di ripetizione di quanto indebitamente addebitato dagli istituti di credito.
Il giudizio deciso dalla Corte in sede di legittimità scaturisce da un decreto ingiuntivo che, come si evince dalla sommaria ricostruzione del fatto, è stato proposto dal correntista nei confronti di un istituto di credito al fine di conseguire la restituzione dell’importo di L. 413.785.381 a titolo di ripetizione di indebito oggettivo derivante dall’applicazione di interessi ultralegali e c.m.s. non validamente pattuiti per iscritto e, comunque, usurari, relativamente a tre rapporti di conto corrente bancario. Immaginiamo che a sostegno del ricorso monitorio il correntista abbia allegato gli estratti conto dai quali emergeva, verosimilmente, il saldo a debito del conto corrente e, poi, una ricostruzione contabile che determinava l’importo indebitamente addebitato. (altro…)
Inammissibilità del procedimento ex art.700 c.p.c. per la cancellazione della segnalazione alla Centrale Rischi
L’illegittimo inserimento dei dati personali all’interno dei sistemi informativi sull’indebitamento della clientela delle banche e degli intermediari finanziari vigilati dalla Banca d’Italia, può causare al soggetto segnalato un grave danno da rimuovere nel più breve tempo possibile.
Se, da un lato, gli intermediari finanziari sono obbligati ad operare le segnalazioni per consentire una corretta valutazione del merito creditizio, da un altro lato, i soggetti segnalati devono essere senz’altro tutelati rispetto agli effetti negativi che l’errato inserimento dei dati può produrre sulla loro reputazione commerciale. (altro…)
La semplificazione in materia di Privacy: l’abolizione del DPS
l 4 aprile 2012 è stata approvata dalla Camera la legge di conversione del decreto legge n.5 del 9 febbraio 2012 noto come “Semplifica Italia”. E’ dunque definitiva l’abolizione dell’obbligo imposto dal d.lgs. 196 del 2003 di redigere entro il 31 marzo di ogni anno il Documento Programmatico sulla Sicurezza, ovvero la mappa delle misure minime di sicurezza adottate per la tutela della privacy da soggetti pubblici e privati che trattano dati personali, sensibili e/o giudiziari.
Sin dalla pubblicazione del decreto legge e dalla sua entrata in vigore, la notizia è stata commentata soprattutto osservando che l’abolizione del DPS avrebbe determinato un considerevole risparmio di tempo e di denaro per i titolari del trattamento dei dati. Tuttavia, tale lettura della innovazione normativa appare decisamente superficiale e anche pericolosamente fuorviante. Infatti, basta esaminare la normativa dettata dal d.lgs. n.196 del 2003 per verificare che la redazione del DPS costituiva solo uno degli adempimenti documentali imposti al fine di garantire il corretto trattamento dei dati. E’ d’uopo ricordare che a fronte dell’abrogazione del solo art.34 I comma lett. g del citato decreto legislativo resta obbligatorio adottare tutte le altre misure minime di sicurezza indicate dall’art.29, dall’art. 30, dall’art.34 comma I lett. a, b, c, d, e, f, h e dall’art.35, così come specificate dall’Allegato B.
In particolare preme segnalare che, da un punto di vista documentale, resta fermo l’obbligo di tenere accuratamente aggiornate le nomine dei responsabili e degli incaricati del trattamento dei dati. Chi, in conformità con quanto disposto dalla legge, negli anni passati ha redatto per ciascun responsabile ed incaricato, delle nomine specifiche dalle quali si evinca con chiarezza l’ambito del trattamento dei dati consentito, le funzioni svolte, gli obblighi da rispettare, l’elenco delle banche dati cartacee e informatiche alle quali è permesso l’accesso e gli estremi del pc utilizzato da ciascun soggetto, dovrà comunque continuare a farlo. Ed è evidente che la redazione e l’aggiornamento di tali nomine costituisce il lavoro prodromico ed essenziale per la redazione del DPS.
In altri termini, fermi restando tutti gli adempimenti imposti dal d.lgs. n.196 del 2003, si eviterà solo di sintetizzarli in un documento unico. Pertanto, i titolari del trattamento, soprattutto di dati sensibili, non possono sentirsi in alcun modo autorizzati a ritenere che a seguito dell’abolizione del DPS, entro il 31 marzo di ogni anno, non ci sia più nulla da fare. Anzi dovranno anche essere consapevoli che nel caso di un controllo da parte delle autorità competenti oppure in sede contenziosa, su di loro incomberà comunque l’onere della prova di aver adempiuto agli obblighi imposti dalla legge a tutela della privacy entro la data stabilita. Mentre finora tale onere poteva essere adempiuto esibendo il DPS con data certa, per effetto dell’abolizione del documento, sarà molto più difficile dimostrare di essere in regola.
A ciò si aggiunga che la legge di conversione del decreto “Semplifica Italia” nulla statuisce in merito alla formazione dei responsabili e degli incaricati. Atteso che la norma abrogata, nel definire il contenuto del DPS, prevedeva che in tale documento si facesse espresso riferimento alla formazione annuale dei responsabili e degli incaricati, si è sbrigativamente concluso che anche questo impegno non dovesse essere più assolto. Tuttavia, per esperienza personale, ho verificato che gli incontri formativi, soprattutto se intesi come un momento di confronto dinamico con tutti coloro che quotidianamente trattano i dati personali, sensibili e giudiziari, sono più utili di qualsiasi altro adempimento. Infatti, permettono di esaminare tematiche e questioni che spesso appaiono astratte e di sensibilizzare le persone rispetto alla necessità di sviluppare un interesse maggiore per la tutela della riservatezza e, dunque della personalità dell’individuo, e di trasmettere il messaggio soprattutto ai più giovani. Inoltre, in sede formativa emergono i dubbi e si trovano le soluzioni alle problematiche applicative del d.lgs. 196 del 2003.
Concludendo, dunque, è decisamente consigliabile continuare ad adempiere agli obblighi imposti dal d.lgs. 196 del 2003 adottando le misure minime di sicurezza in esso indicate aggiornando regolarmente la documentazione e, quindi, soprattutto le nomine dei responsabili e degli incaricati del trattamento, il registro che attesta il cambiamento delle password e le informative.
Che cos’è la legalità
In nessun Paese europeo come in Italia la regola è sentita come sofferenza, anzi come un limite, qualcosa che sottrae piuttosto che aggiungere. Gherardo Colombo insiste nei suoi testi su due categorie di regole: le regole formali, nelle quali l’uguaglianza è valore costituzionale, e le regole occulte, che cambiano arbitrariamente a seconda della volontà del soggetto (corruzione negli appalti, corruzione nella causa civile, corruzione per non pagare una multa, corruzione per l’immondizia, corruzione per l’università, corruzione…).
Le prime fortificano la comunità, le seconde la annullano. La regola, la legge, ciò che costituisce il piano su cui ognuno “risponde” (cioè la responsabilità di ognuno verso gli altri), è in Italia tollerata, sopportata, sofferta. L’uguaglianza la si patisce come piatta livella. La necessità di educare se stessi alla ricerca della regola responsabile nello stare con sé e con gli altri è urgente. E fondamentale.
Dati del libro
Titolo: Che cos’è la legalità – con CD audio
Autore: Gherardo Colombo
Prezzo: € 15,00
Anno: 2010
Altri dati:28 p.
Editore: Che cos’è la legalità – con CD audio
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Di sana e robusta Costituzione. Intervista di Carlo Alberto dalla Chiesa
Piero Calamandrei diceva che per cercare i luoghi in cui è nata la Costituzione bisogna andare sulle montagne in cui caddero i partigiani, nelle carceri in cui furono imprigionati e nei campi dove furono impiccati: ovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità di un popolo, lì devono andare i giovani perché lì è nata la nostra Costituzione. Parole forti, che mai come oggi suonano sconosciute proprio a quei giovani che della vita democratica sono linfa vitale e che invece vivono sempre più lontani da quei luoghi del pensiero e dell’azione che i costituenti trasformarono in un grandioso inno alla convivenza civile e alla vita democratica. La Costituzione è la legge fondamentale e fondativa dello Stato italiano.
In vigore dal 1° gennaio 1948 la Costituzione non è un atto politico e non è lo strumento di una parte contro l’altra, ma un terreno di confronto pensato e strutturato per adeguarsi alle trasformazioni del paese. Oscar Luigi Scàlfaro e Gian Carlo Caselli si confrontano sull’attualità della carta costituzionale, sul suo stato di salute e sulla necessità di una rivalutazione e di una vera presa di coscienza del suo ruolo centrale nella vita democratica dell’Italia. Completa il libro la pubblicazione integrale della Costituzione della Repubblica Italiana.
Dati del libro
Titolo: Di sana e robusta Costituzione. Intervista di Carlo Alberto dalla Chiesa
Autore: Scalfaro Oscar L.; Caselli G. Carlo
Prezzo: € 11,90
Anno: 2010
Altri dati:192 p., brossura
Editore: ADD Editore
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