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Il brigantaggio e la legge Pica

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Il presente lavoro è dedicato all’analisi del fenomeno del brigantaggio che si diffuse in Italia nel periodo post unitario. Il primo capitolo ricostruisce il contesto politico, economico e sociale nel quale il brigantaggio si sviluppò, soprattutto nel Mezzogiorno dove l’Unità d’Italia acuì ulteriormente lo squilibrio economico e sociale esistente tra il Nord e il Sud,  gettando le basi per la “questione meridionale”

Le condizioni di arretratezza economica e sociale del Mezzogiorno generarono un diffuso malcontento che si manifestò anche attraverso il fenomeno del brigantaggio affermatosi tra il 1861 e il 1865. Organizzati in bande, i briganti attaccavano i paesi, saccheggiavano i negozi e davano fuoco agli edifici comunali, per poi fuggire nelle campagne o sulle alture. Si trattò di un fenomeno molto esteso, che coinvolse migliaia di persone e si sviluppò proprio mentre Vittorio Emanuele II a Torino con la legge del 17 marzo 1861 assumeva il titolo di re d’Italia. Attraverso la Relazione presentata dal  Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio, Giuseppe Massari, dunque, si ricostruiscono quelle che, secondo gli organi governativi, costituivano le cause del fenomeno.

Il primo capitolo si chiude con la definizione dei tratti caratterizzanti la  figura del brigante emersi dalle testimonianze del tempo. Si esamina, inoltre, l’opera di intenzionale costruzione dello stereotipo del brigante definito come il fuorilegge rurale che attentava alla vita e alla proprietà e giungeva, in tal modo, a ribellarsi all’ordine pubblico mettendo a repentaglio la sicurezza dello Stato. Il brigante commetteva i crimini di sempre contro le persone e la proprietà ma veniva presentato come un ribelle ad ogni ordine di convivenza civile e costituiva l’anello mancante tra la criminalità comune e quella politica.

Il lavoro analizza anche l’opera di Cesare Lombroso, fondatore dell’antropologia criminale, il quale dedicò anni di studio ai briganti e pubblicò il Trattato antropologico sperimentale dell’uomo delinquente  ove espose la teoria secondo la quale era possibile individuare in un’anomalia rilevata nel cranio di un contadino, peraltro, solo sospettato di essere un brigante, l’elemento rivelatore del suo essere un delinquente nato. Successivamente, Lombroso ritenne di riconoscere il tipo caratteristico del criminale anche nel brigante Gasbarrone morto ad 89 anni, trasformandolo in un mito negativo da impiegare al fine di propagandare la sua classificazione scientifica dei fenomeni criminali.

Il secondo capitolo affronta il tema dell’evoluzione del sistema di repressione criminale nel periodo successivo all’Unità d’Italia. Nel nostro paese era fortemente sentita l’esigenza di procedere alla codificazione anche in ambito penale. Infatti, i codici avrebbero garantito un contenuto nuovo e certo del diritto penale rispetto alle preesistenti fonti del diritto.

Il primo codice penale fu pubblicato dal Granduca di Toscana, Pietro Leopoldo, il 30 novembre del 1786. In altre regioni d’Italia si ebbe l’estensione del codice penale francese del 1791, espressione di un nuovo sistema penale legato all’illuminismo. Dopo la Restaurazione, il movimento per la codificazione non si arrestò. Nel Regno Lombardo Veneto fu esteso il Codice austriaco dei delitti e delle gravi trasgressioni di polizia del 1803, espressione della mentalità reazionaria e di durezza e severità nella procedura e nelle pene. Nel 1819, nel Regno delle Due Sicilie, entrò in vigore il Codice di Ferdinando I  e, nello Stato di Parma, Piacenza e Guastalla, furono pubblicati, con R.D. 5 novembre e 13 dicembre 1820, i codici penale e di procedura criminale ispirati alla legislazione napoleonica. Il Codice Estense emanato per lo Stato di Modena da Francesco IV nel 1835 e il Regolamento sui delitti e sulle pene pubblicato per lo Stato pontificio da Gregorio XVI nel 1832 furono nettamente reazionari. In Toscana rimase in vigore il codice Leopoldino del 1786 modificato in senso autoritario da un editto del 1816 che introdusse anche la pena di morte per i furti commessi da bande armate.

A seguito dell’Unificazione d’Italia il complesso e variegato panorama delle codificazioni penali si semplificò.  Infatti, con il decreto Farini del 27 dicembre 1859, il Codice penale che nel 1839 era stato promulgato da Carlo Alberto per il Regno di Sardegna e, successivamente,  era stato riformato, anche alla luce dei principi sanciti dallo Statuto Albertino, fu esteso ai territori  già facenti parte dei Ducati di Modena e di Parma, Piacenza e Guastalla nonché nelle Romagne. Nel 1860 il medesimo Codice entrò in vigore in Piemonte e in Lombardia e nel 1861, nelle Marche e nell’Umbria. Nel 1871 il Codice sardo piemontese fu esteso anche a Roma e al Lazio nonché al Veneto e alla provincia di Mantova.  Più complessa fu l’estensione di tale Codice ai territori facenti parte del Regno delle Due Sicilie che avvenne nel 1861, per le province napoletane, e nel 1862, per le province siciliane, ma solo a seguito di alcune modifiche che si resero necessarie anche in considerazione della necessità di fronteggiare il fenomeno del brigantaggio.

L’unica regione italiana alla quale non fu possibile estendere il Codice sardo piemontese né prima, né dopo la proclamazione del Regno d’Italia, fu la Toscana ove rimase in vigore il Codice penale Leopoldino, riformato nel 1853.

Dopo aver esaminato le particolarità di ciascuno dei codici penali vigenti in Italia al momento dell’unificazione, si dedica attenzione particolare alle disposizioni destinate a  reprimere i reati associativi.

Il secondo capitolo si chiude con l’analisi del sistema di repressione predisposto per affrontare il problema del brigantaggio. Si trattò di un sistema repressivo basato sull’impiego della forza, legittimato dall’adozione di leggi speciali che derogavano palesemente ai principi dello Stato liberale sanciti dallo Statuto Albertino.  La classe dirigente nazionale, dunque, decise di impiegare la politica penale come strumento di politica sociale, adottando misure repressive affidate all’esercito, considerato una compagine solida, prestigiosa, fedele alla dinastia, unico baluardo contro l’anarchia. Tali misure, tuttavia, contrastavano con i principi dello Stato liberale.  La repressione militare, inoltre, fece cadere nell’ombra le problematiche connesse al decentramento amministrativo e alla crisi economico sociale e determinò uno scollamento sempre più marcato tra la classe dirigente nazionale ed i segmenti illuminati della società civile meridionale,  accrescendo la distanza tra il Nord e il Sud d’Italia. Le misure di repressione, inizialmente adottate in via eccezionale e temporanea, a seguito di una serie di proroghe, determinarono una torsione del sistema penale e crearono una sorta di costituzione materiale penale destinata ad affiancarsi stabilmente a quella formale.

Il terzo capitolo ricostruisce la genesi della cosiddetta “legislazione d’emergenza” a partire dalle indagini sul brigantaggio meridionale commissionate per comprendere il fenomeno e approntare la migliore soluzione.

Il lavoro di indagine svolto dalla “Giunta sul brigantaggio” fu fortemente condizionato da influenze governative che impedirono di  rendere palesi le reali cause del fenomeno. Infatti, i membri della Commissione che visitarono le regioni meridionali si resero conto che il brigantaggio era, innanzitutto, una rivoluzione di classe e non una mera forma di criminalità organizzata. Pertanto, la migliore soluzione non poteva essere rappresentata dall’uso della forza ma dalla rimozione dei problemi sociali ed economici presenti nel Mezzogiorno.

Le forze governative stabilirono che la Commissione dovesse indagare le cause del brigantaggio, studiare le condizioni delle popolazioni del Mezzogiorno e proporre i mezzi più acconci per battere quel flagello, astenendosi, tuttavia,  dal sindacare le carenze della politica sociale ed economica condotta  nel Mezzogiorno,  per non offrire ai nemici dell’Unità lo spettacolo di lotte faziose.

La relazione Massari redatta all’esito dell’indagine, dunque, dopo aver illustrato le cause ed il carattere del brigantaggio, indicava i nuovi sistemi da adottare e tra questi, il progetto di legge speciale per eliminare il fenomeno. La Commissione riteneva ammissibile l’adozione di rimedi legislativi repressivi, seppur in palese conflitto con il dettato dello Statuto Albertino, perché dalle indagini effettuate risultava sussistente lo stato di necessità istituzionale determinato da un fenomeno non diversamente eliminabile. In altri termini, il brigantaggio era rappresentato come un fenomeno analogo allo stato di guerra previsto dallo Statuto Albertino,  inteso come quel contesto in cui non si può evitare di intervenire con drastiche misure. Nel contempo fu avviata una vasta campagna di comunicazione tesa a diffondere presso l’opinione pubblica lo stereotipo del brigante, in precedenza esaminato.

La Commissione riteneva si dovesse favorire l’elaborazione di un modello di incriminazione base per il crimine di brigantaggio, strutturato come reato associativo punito con la pena capitale commesso da coloro che scorrevano la campagna in compagnia armata. In esso si riteneva dovessero essere assorbiti ed equiparati comportamenti di complicità come il  manutengolismo che si configurava come una sorta di concorso esterno nel reato di brigantaggio. La relazione Massari, infine, proponeva anche la previsione di misure che favorissero e incoraggiassero il fenomeno del pentitismo, al fine di incentivare il rientro nella legalità.

Si giunse, dunque, ad elaborare il progetto di quella che sarebbe stata la “legge Pica” recante disposizioni in materia di “Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette”, approvata il 6 agosto del 1863 e pubblicata il 15 agosto del 1863. Tale legge, inizialmente, aveva una validità limitata al 31 dicembre successivo. In seguito, fu prorogata fino al 28 febbraio 1864 quando fu sostituita da un’altra legge eccezionale che, di fatto, ne confermò i contenuti.

Il capitolo, esamina i contenuti della Legge Pica e della successiva Legge Peruzzi che costituiscono la prima forma di legislazione penale di emergenza introdotta nell’ordinamento giuridico dopo l’Unità d’Italia, in deroga ai principi sanciti dallo Statuto Albertino e delle norme del codice penale sardo piemontese. La sostanziale stabilizzazione di tale legislazione attuata attraverso la proroga dell’efficacia della Legge Pica e l’approvazione della Legge Peruzzi generò il paradosso del fallimento della legislazione stessa che, evidentemente, non aveva risolto il problema del brigantaggio, creò un doppio livello di legalità, indusse l’affermazione del principio illiberale secondo cui la Costituzione è una legge valida solo in periodi di pace sociale e trasformò l’apparato statale in senso burocratico poliziesco, con l’inevitabile conseguenza della profonda sfiducia nelle istituzioni e nelle garanzie statutarie da parte dei cittadini e della crescita del peso dell’esecutivo rispetto agli altri poteri dello Stato.

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