Chiedi info su questa tesi o chiedi una consulenza per una tesi in diritto del lavoro
Il presente lavoro è dedicato all’analisi della disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo. A tale scopo nel primo capitolo si procede alla definizione del concetto di licenziamento individuale. Tale nozione giuridica è la risultante dell’esperienza compiuta negli anni che hanno preceduto il 1966, attraverso la contrattazione collettiva interconfederale nel settore dell’industria. Infatti, anteriormente a tale data il codice civile del 1865, quello successivo del 1942 ed, in via interpretativa, anche gli artt.3, 4 e 41 della Costituzione del 1948 definivano esclusivamente il concetto di recesso del datore di lavoro. Il recesso si configurava come un diritto potestativo che si esercitava mediante un negozio giuridico unilaterale volto a provocare, senza necessità di motivazione, l’estinzione del rapporto di lavoro, oppure, secondo una parte della dottrina, come un negozio astratto o acausale.
I sindacati, mediante la disciplina negoziale, proponevano una limitazione convenzionale del potere risolutivo del datore di lavoro. La contrattazione collettiva non intendeva abolire ma regolare il recesso ordinario prevedendo i limiti procedurali e sostanziali di motivazione dell’istituto giuridico che, in tal modo, non sarebbe stato lasciato alla mercè della discrezionalità del datore di lavoro. Tuttavia, la soluzione negoziale non era in grado di condizionare realmente il potere datoriale di recesso e di fronteggiare le sue resistenze all’introduzione di una serie di limiti.
Agli inizi degli anni ’60 veniva finalmente redatto un primo progetto di intervento del legislatore mirato a favorire il superamento del sistema di stabilità obbligatoria del codice civile e ad introdurre limiti reali e cogenti al potere di licenziamento e l’obbligo della conseguente riammissione effettiva del lavoratore nel posto di lavoro. Seguito da altre iniziative legislative l’iniziale progetto culminava nell’approvazione della prima legge limitativa del licenziamento, avvenuta nel 1966. Tale legge introduceva il principio innovativo rispetto al codice civile secondo il quale il licenziamento poteva disporsi solo in presenza di giusta causa o di giustificato motivo. In caso contrario il lavoratore aveva diritto alla tutela obbligatoria. Il licenziamento ingiustificato, dunque, era illegittimo ma era ugualmente in grado di estinguere il rapporto di lavoro e il datore di lavoro aveva la possibilità di scegliere alternativamente tra la sanzione del risarcimento del danno e quella della riassunzione del lavoratore nel posto di lavoro. Era evidente che il datore di lavoro attraverso il pagamento una tantum di un somma di denaro poteva liberarsi del lavoratore licenziato in assenza di un giusto motivo.
La revisione della disciplina sanzionatoria dettata dalla legge n.604 del 1966 culminava nell’approvazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori che introduceva la tutela reale del posto di lavoro in base alla quale il licenziamento illegittimo era considerato invalido e, quindi, incapace di estinguere il rapporto di lavoro. Pertanto il datore di lavoro era tenuto a reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato ed a risarcirgli il danno.
La tutela reale non sostituiva integralmente la tutela obbligatoria ma conviveva con essa. L’ambito di applicazione di queste due forme di tutela era definito in base alle dimensioni occupazionali dell’impresa. Residuava, infine, uno spazio occupato dalla disciplina del licenziamento ad nutum definita dal codice civile.
Il compromesso tra le varie forme di tutela dal licenziamento illegittimo, durante gli anni ’80, veniva più volte sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale a cui veniva chiesto di verificare l’esistenza di eventuali discriminazioni nel trattamento dei lavoratori e di valutare l’ammissibilità di una serie di quesiti referendari aventi ad oggetto l’art.18 dello Statuto dei lavoratori e finalizzati a generalizzare l’applicazione della tutela reale.
I referendum sollecitarono l’iniziativa legislativa che culminò nell’approvazione della legge n.108 avvenuta nel 1990. Tale legge introduceva un nuova formulazione dell’art.18 che definiva il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo nel seguente modo: il licenziamento ingiustificato era sempre illegittimo ma non era sempre invalido cioè annullabile; infatti nelle imprese di dimensioni occupazionali minori dove continuava ad applicarsi la legge n.604 del 1966 e la tutela obbligatoria il licenziamento, in assenza di giusta causa o di giustificato motivo, determinava la responsabilità restitutoria e indennitaria del datore di lavoro, ma non era invalido, cioè annullabile, in quanto produceva ugualmente l’effetto di estinguere il rapporto di lavoro. Invece, nelle imprese di maggiori dimensioni occupazionali, nelle quali il licenziamento ingiustificato comportava l’applicazione della tutela reale ex art.18 dello statuto dei lavoratori, il datore di lavoro rispondeva per l’indebita interruzione della funzionalità di fatto del rapporto, che non si considerava validamente estinto. Pertanto in tali ipotesi il licenziamento ingiustificato era considerato illegittimo e invalido cioè annullabile e perciò incapace di estinguere il rapporto. Il licenziamento discriminatorio o rivolto ad una lavoratrice gestante oppure affetto da un vizio di forma era illegittimo e invalido perché nullo; pertanto non era in grado di estinguere il rapporto di lavoro. Esso nelle imprese di minore dimensione occupazionale era sottoposto alla disciplina codicistica ex art.2118 c.c. che stabiliva che il datore di lavoro ne rispondeva a titolo di adempimento degli obblighi primari retributivi: infatti non avendo il licenziamento estinto il rapporto erano dovute al lavoratore tutte le retribuzioni. Invece, nelle imprese di maggiori dimensioni occupazionali il licenziamento nullo era sottoposto alla sanzione prevista dall’art.18 dello statuto dei lavoratori che alla caducazione ex tunc degli effetti estintivi del rapporto di lavoro aggiungeva il regime di reintegrazione degli obblighi contrattuali. Il datore di lavoro, dunque, anche in questo caso rispondeva degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro comprensivi di quelli strumentali al ripristino dello scambio contrattuale.
Infine, il licenziamento dei lavoratori domestici e degli ultrasessantenni che avessero maturato i requisiti per la pensione e che non avessero optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro, a meno che non fosse discriminatorio, era sottoposto alla disciplina dell’art.2118 del codice civile.
La legge n.108 del 1990, dunque, realizzava una combinazione tra le due tecniche sanzionatorie (quella obbligatoria e quella reale) che non risultava felicissima, perché sottovalutava alcuni aspetti operativi della tutela obbligatoria, destinata ad essere valida per l’impresa minore.
Il secondo e il terzo capitolo del lavoro sono dedicati allo studio approfondito della tutela obbligatoria e della tutela reale del posto di lavoro dal licenziamento illegittimo. Attraverso la dottrina e le sentenze recenti della giurisprudenza si analizzano le problematiche giuridiche connesse al regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo per mancanza di forma, del licenziamento illegittimo per mancanza di giustificazione e del licenziamento discriminatorio.
Da questo lavoro di studio si evince la necessità fortemente sentita di intervenire sull’art.18 dello Statuto dei lavoratori, così come riformulato dalla legge n.108 del 1990, al fine di eliminare la distinzione attualmente esistente tra la tutela reale e la tutela obbligatoria.