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La Costituzione Italiana, entrata in vigore nel 1948, è permeata dal principio personalistico in base al quale ogni uomo è, in quanto tale, titolare di situazioni esistenziali, rappresentate nello status personae, delle quali talune, come il diritto alla vita, alla salute, al nome, alla stessa manifestazione del pensiero, prescindono dalle capacità intellettive o almeno da alcune forme di intelligenza comunemente intesa. La tutela giuridica dei disabili trova il suo fondamento proprio nel principio personalistico che, oltre ad esprimere un valore politico, simbolico e pragmatico, costituisce anche un parametro normativo alla luce del quale interpretare e valutare la disciplina posta a tutela dei disabili a partire dal codice civile del 1942.
Le persone con disabilità, sono soggetti giuridici e, come tali, sono titolari di tutte le situazioni soggettive riconosciute e garantite, in generale, dalla Costituzione e, quindi, sia dei diritti civili, sia dei diritti sociali. La tutela costituzionale dei disabili, pertanto, si fonda sia sull’art.38 comma 3 Cost., sia sul combinato disposto degli artt.2 e 3 Cost. che impongono alla Repubblica ovvero al legislatore e a tutte le altre articolazioni istituzionali di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo nel rispetto dell’uguaglianza formale e sostanziale. L’Italia si è dotata di leggi che riconoscevano e garantivano alcune situazioni giuridiche soggettive alle persone disabili ancora prima che la Costituzione repubblicana affermasse, solennemente, il principio personalistico. Naturalmente, la normativa a tutela dei disabili risalente al periodo pre repubblicano non era direttamente finalizzata ad affrontare le problematiche specifiche connesse alla disabilità. I disabili, infatti, non erano considerati se non come poveri in stato di malattia ai quali fornire un’assistenza basata, esclusivamente, su principi di carità e su disposizioni relative alla beneficenza pubblica. La normativa pre-repubblicana, poi, era frammentaria, era indirizzata a categorie specifiche di portatori di handicap e aveva una impostazione pensionistica: l’intervento assistenziale era considerato in termini principalmente economici, concretizzandosi nell’erogazione periodica di somme di denaro.
L’avvento della Costituzione repubblicana, improntata al principio personalistico, ha determinato il mutamento dei valori che dovevano ispirare la legislazione a tutela dei disabili. Tuttavia, l’attuazione dei valori sanciti dalla Costituzione non si è realizzata in maniera immediata, mancando un sistema omogeneo e razionale utile per garantire diritti certi ai soggetti portatori di handicap. Infatti, i principi sanciti solennemente dalla Costituzione non hanno scardinato il sistema assistenziale che continuava ad essere regolato da una normativa frammentaria e settoriale la quale determinava, da una parte, una crescita eccessiva di enti nazionali e locali cui venivano assegnati compiti gestionali in materia, dall’altra la categorizzazione dei bisogni dei cittadini (assistenza economica, assistenza sanitaria, collocamento al lavoro, ecc.) e la loro discriminazione.
A partire dagli anni ’70 del 1900 il legislatore ha tentato di dare un assetto più organico alla normativa riguardante i cittadini svantaggiati avviando una politica finalizzata a riconoscere e garantire ai disabili i diritti civili e sociali. Con la legge n.118 del 30 marzo 1971 riguardante gli invalidi civilisti sancivano, per la prima volta, principi ed enunciazioni di carattere generale diretti a promuovere il reinserimento e l’integrazione dei soggetti svantaggiati, uscendo dalla logica della cosiddetta “monetizzazione dell’handicap” che aveva caratterizzato l’esperienza legislativa precedente. Un’ulteriore passo verso l’integrazione dei disabili nella società civile è stato compiuto nel 1978 con la promulgazione della legge n.180 nota come legge Basaglia che ha introdotto la riforma psichiatrica ed il superamento del sistema manicomiale. Sempre nello stesso anno è stato istituito il Servizio Sanitario Nazionale con la legge n.833 che prevede e disciplina la erogazione delle prestazioni di riabilitazione definite come prestazioni sanitarie dirette al recupero funzionale e sociale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, dipendenti da qualunque causa.
L’esigenza di razionalizzare la produzione normativa in materia di tutela delle persone disabili ha condotto all’approvazione della legge quadro n.104 del 1992 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. La legge in esame rappresentava una vera e propria carta dei diritti dell’handicappato ossia una sorta di proclamazione generale dei diritti delle persone portatrici di handicap. Va rimarcato, inoltre, come la normativa costituiva, nelle intenzioni del legislatore, la realizzazione del progetto di mettere a punto una regolamentazione destinata ad affrontare il tema dell’handicap in modo globale. Secondo quanto veniva esplicitato dallo stesso relatore nel corso dei lavori preparatori, con la legge n.104 del 1992 si mirava a sistemare, in attesa di una completa riforma del settore, la materia dell’assistenza per il comparto concernente le persone handicappate o, quantomeno, a costituire un punto organizzato di riferimento per la regolamentazione regionale.
In pratica, la legge n.104, nelle intenzioni del legislatore, era uno strumento istituzionale destinato a facilitare la realizzazione delle condizioni di uguaglianza per il pieno rispetto della dignità umana, dei diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata. Trattandosi di una legge quadro, il legislatore indicava in maniera articolata i mezzi attraverso i quali raggiungere il fine. La legge forniva anche la definizione di “handicappato” al fine di individuare l’ambito soggettivo di applicazione della normativa in essa sancita. Ispirandosi a precedenti tratti, sia dalla normativa internazionale, sia dalla legislazione regionale, il legislatore si rifaceva alla Classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli svantaggi formulata dall’OMS nel 1980 e specificava che “E’ persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.
La legge quadro ha deluso le aspettative perché apparentemente, ha un respiro assai ampio, toccando tutti gli aspetti della problematica dell’handicap, dalla scuola all’informazione, dalla mobilità personale alle barriere architettoniche, fino alle pensioni; tuttavia, l’unificazione della disciplina non sembra semplificare il complesso di norme già vigenti. Le enunciazioni di principio, poi, abbondano, ma non si traducono in prescrizioni precettive ed operanti. Infatti, la legge in esame è costellata dalla previsione di “facoltà” e non di “obblighi” e dal riferimento ai limiti del bilancio. Tra le leggi più recenti poste a tutela dei disabili va senz’altro segnalata la legge n.67 del 2006 recante norme sulla tutela giudiziaria delle persone con disabilità. L’art.1 della legge in esame si fa carico della “piena attuazione” della legge n.104 del 1992, intendendo rappresentare uno strumento utile per rimuovere le discriminazioni a danno dei disabili.
La novità più importante introdotta dalla legge 67 del 2006 è rappresentata proprio dalla possibilità concessa ai disabili di accedere alla tutela giurisdizionale. Pertanto, il disabile che ritiene di avere subito un atto discriminatorio, sia dal privato, sia dalla pubblica amministrazione, può depositare un ricorso, anche personalmente, nella cancelleria del Tribunale civile in composizione monocratica con il quale può chiedere, sia la cessazione del comportamento discriminatorio, sia il risarcimento del danno.
La legge finora esaminata è ancora poco applicata e se ne parla scarsamente. Forse perché si tratta di un testo relativamente sintetico, la cui vastità di contenuti può sfuggire. O forse perché, sul tema della disabilità, la consapevolezza è più concentrata sulle prestazioni sociali, che sull’eguaglianza. La legge merita senz’altro apprezzamento, avendo scelto un procedimento volto a snellezza e velocità d’azione, nonché un sistema sanzionatorio che sembra ispirarsi alla solidità e giustizia concreta del potere giurisdizionale.
La patologia mentale si manifesta in una molteplicità di forme che variano per la loro differente origine, congenita o acquisita, ma soprattutto, per la diversità di graduazione e di qualità di insufficienza mentale che da esse deriva. Le peculiarità che caratterizzano il vario manifestarsi della psiche umana hanno indotto i giuristi ad effettuare la distinzione tra la condizione dell’handicappato psichico affetto da insufficienza mentale e la condizione del malato mentale.
L’handicap psichico o insufficienza mentale è una condizione stabile che menoma il soggetto sin dalla nascita impedendogli di raggiungere lo sviluppo mentale normale. La malattia mentale, invece, rappresenta una condizione sopravvenuta che interviene a menomare le capacità psichiche originariamente normali del soggetto. L’ordinamento giuridico italiano, per lungo tempo, non ha tenuto conto della differente condizione dell’insufficiente mentale rispetto a quella del malato mentale, applicando ad entrambe le categorie di soggetti deboli i medesimi istituti di tutela, sacrificando le esigenze ed i diritti degli insufficienti mentali.
Il codice civile prende in considerazione l’ipotesi che la capacità di agire sia limitata, non dall’età, bensì da infermità più o meno gravi, prevedendo, a seconda dei casi, l’applicazione degli istituti giuridici dell’interdizione giudiziale e dell’inabilitazione. L’art. 414 c.c. dispone che l’interdizione giudiziale viene pronunciata dal giudice nei confronti di chi, maggiorenne o minore emancipato che sia, si trovi in condizione di abituale infermità di mente, tale da renderlo incapace di provvedere ai propri interessi. Parimenti, possono essere interdetti il sordomuto e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia, se risulta che siano del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi. L’interdetto giudiziale, nel compimento degli atti giuridici che lo riguardano, deve essere sostituito da un tutore. Per gli atti che, invece, non ammettono rappresentanza come il matrimonio o il testamento, all’incapacità dell’interdetto non si può ovviare in alcun modo. Secondo l’art. 415 c.c. si è in presenza di inabilitazione quando una persona è affetta da infermità mentale non grave al punto da doversi procedere a interdizione giudiziale. All’infermità parziale di mente la legge equipara la prodigalità e l’abuso di bevande alcoliche o di sostanze stupefacenti, qualora espongano la persona e la sua famiglia a gravi pregiudizi economici. Possono essere inabilitati anche il sordomuto e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia, se non hanno ricevuto un’educazione sufficiente.
L’inabilitato può compiere da solo gli atti di ordinaria amministrazione, mentre per quelli di straordinaria amministrazione deve essere assistito dal curatore: la sua condizione, quindi, è analoga a quella del minore emancipato. L’interdizione e l’inabilitazione determinano situazioni di incapacità definitiva o, comunque, duratura. Diversa è l’incapacità naturale, intendendosi per essa la condizione di incapacità di intendere e di volere in cui si viene, temporaneamente, a trovare una persona normalmente padrona delle proprie azioni: si pensi agli effetti dell’assunzione di un narcotico. La tutela provvisoria, infine, è un istituto che consente la nomina di un tutore per il compimento di uno specifico atto e trova applicazione nei casi in cui non vi sono le condizioni per procedere all’interdizione o all’inabilitazione.
Gli istituti di protezione finora sommariamente esaminati rispecchiano il clima culturale nel quale è stato elaborato il codice civile del 1942, un clima particolarmente attento al contenuto patrimoniale della tutela giuridica. Tale contesto ha indotto il legislatore a considerare i malati di mente come, del resto, i disabili, alla stregua di entità inutili al sistema produttivo ed alla grandezza della Nazione. La filosofia che ha ispirato la Costituzione entrata in vigore nel 1948 ha ribaltato la originaria impostazione codicistica e legislativa in tema di tutela dei malati mentali. Alla luce del valore personalistico deducibile dall’art.2 Cost. è emersa con evidenza la inadeguatezza degli istituti civilistici di protezione dei soggetti incapaci di agire e la necessità di abrogare gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione. Dopo diverse proposte di legge, il 18 marzo 1968 è stata approvata la legge n. 431 che ha rappresentato il primo concreto tentativo di restituire dignità e dimensione umana all’individuo malato di mente. La legge in esame, infatti, ha fornito per la prima volta la definizione della malattia mentale, stabilendo che il malato non poteva essere considerato socialmente pericoloso alla stregua di un criminale ma era un soggetto affetto da una patologia che andava curata e prevenuta. Il nuovo approccio alla malattia mentale ha trovato conferma nell’art.11 della legge in esame, che ha abrogato la norma in base alla quale era imposto l’obbligo di registrazione del malato mentale nel casellario giudiziario.
Il mutato contesto culturale si è rivelato favorevole alla realizzazione della riforma psichiatrica attuata attraverso la legge n.180 approvata il 13 maggio del 1978 e, successivamente, integrata dalla legge n.833 del 1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. La riforma in esame è stata il frutto del lavoro tenace di Franco Basaglia il quale, operando presso l’Ospedale Psichiatrico di Trieste, ha fornito un contributo determinante al cambiamento del sistema manicomiale. La legge Basaglia ha rappresentato una svolta epocale nella tutela dei soggetti affetti da malattie mentali. Infatti, la nuova normativa ha determinato l’abbandono di un sistema coercitivo, di contenzione, basato su terapie meramente mediche e di correzione proprie degli ambienti manicomiali, per introdurre un discorso più aperto, improntato al riconoscimento della dignità della malattia e, quindi, della dignità dell’individuo malato, il tutto sorretto da un cambiamento di intervento terapeutico basato su una nuova rete di strutture e di servizi a carattere dipartimentale.
Con la legge n.6 del 2004 il legislatore ha scelto di novellare il codice civile; pertanto, il titolo XII, del libro I è stato ridenominato e ridisegnato. Con l’intestazione “Delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia”, il titolo comprende, attualmente, due capi il primo dei quali contiene gli artt. 404-413 c.c. e porta la rubrica “Dell’amministrazione di sostegno”. Il secondo capo, invece, è intitolato “Della interdizione, della inabilitazione e della incapacità naturale”. Per effetto della normativa in esame, la disciplina degli istituti relativi alla protezione dei soggetti inidonei alla cura dei propri interessi ha subito importanti modifiche.
Nel corpo del codice civile, infatti, è stata inserita la nuova misura dell’amministrazione di sostegno e sono state cambiate alcune disposizioni normative relative agli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione. La legge, inoltre, ha apportato alcune importanti innovazioni nel codice di procedura civile e ha modificato una serie di disposizioni del testo unico in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti nonché della disciplina L’art. 404 c.c. definisce il nuovo strumento dell’amministrazione di sostegno cui può accedere la persona che, per effetto di un’infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi. L’amministrazione di sostegno consente a tale soggetto di essere assistito da un amministratore nominato dal giudice tutelare.
Dalla norma in esame si evince che l’oggetto primario dell’amministrazione di sostegno non è più il patrimonio, da non dilapidare, ma i bisogni e le necessità della persona che riacquistano centralità. Tenendo conto delle condizioni soggettive indicate dalla legge n.6 del 2004 per accedere, rispettivamente, all’interdizione, all’inabilitazione e all’amministrazione di sostegno si può ritenere che il legislatore abbia predisposto un sistema di tutela che può essere integralmente applicato in presenza di patologie psichiche di diversa natura e gravità. Pertanto, l’amministrazione di sostegno, che presuppone la presenza di una generica infermità o menomazione psichica, rappresenta un’opzione protettiva ulteriore rispetto alla pronuncia dell’interdizione e dell’inabilitazione. Pur in presenza dei presupposti dell’interdizione e d’inabilitazione vi è, dunque, la possibilità del ricorso all’amministrazione di sostegno.
I primi interventi della Comunità Europea in tema di disabilità risalgono alla fine degli anni ’70 del 1900 con la creazione di progetti pilota atti a finanziare servizi di integrazione lavorativa. Dopo il 1981, che l’ONU ha dedicato alle persone disabili, venne sostenuta una strategia di investimento per aree geografiche omogenee, ma ciò che mancava era un programma di approccio alla disabilità. Nel 1983 è stato adottato il primo programma comunitario, nell’ambito del quale sono state realizzate altre specifiche iniziative a favore delle persone handicappate. Il Consiglio nel 1986 ha adottato una raccomandazione concernente l’occupazione dei disabili e, nel 1987, un programma comunitario di collaborazione sull’integrazione dei minorati nell’ambito della scuola e un programma comunitario di cooperazione riguardante l’integrazione scolastica. Una nuova tappa è stata segnata nel 1988 dall’adozione, da parte del Consiglio, del secondo programma di azione comunitaria per il periodo 1988-1991, che è stato denominato HELIOS I (Handicapped people in the European community Living).
Lo scopo principale perseguito attraverso HELIOS I era di prolungare e di approfondire le attività dei programmi precedente, ponendo, inoltre, l’attenzione sulla promozione della vita autonoma dei disabili. Con il programma HELIOS II approvato per il periodo compreso tra il 1994 e il 1996, invece, è stata definita una strategia europea di intervento a lungo termine ampliata, soprattutto, nei settori della prevenzione e dell’aiuto tempestivo e della rieducazione funzionale.
Con HELIOS II è stato costituito, inoltre, il Forum Europeo della Disabilità composto dai rappresentanti delle associazioni e delle forze sociali. Il Forum ha la funzione di proporre iniziative e nuove normative ed è chiamato ad esprimersi su progetti sociali che intende varare la Commissione Europea. Nel luglio del 1996 la Commissione Europea ha approvato una Comunicazione sulla parità di opportunità delle persone con disabilità intitolata “Una nuova strategia della Comunità europea nei confronti dei disabili”. In tale comunicazione è contenuta anche la proposta di quella che poi è diventata la Risoluzione del Consiglio del 20 dicembre 1996. Il documento rappresenta una tappa importante in ambito europeo, poiché ha posto le basi per una politica d’integrazione nuova, che è stata, successivamente, adottata in vari settori. Il concetto chiave espresso dalla Comunicazione della Commissione e dalla successiva Risoluzione del Consiglio è il passaggio dall’adattabilità all’integrazione delle persone con disabilità in tutti i campi della vita.
Una tappa fondamentale nell’evoluzione della politica comunitaria in tema di tutela dei disabili è rappresentata dall’introduzione nel Trattato di Amsterdam del 1997 dell’art.13 che rappresenta la base legale legittimante gli interventi europei per la tutela delle persone disabili. L’art.13 del Trattato di Amsterdam rappresenta una disposizione fondamentale. Infatti, essa sancisce il riconoscimento esplicito della competenza e della legittimazione della Comunità ad intervenire direttamente e specificamente sui problemi della disabilità. Tale riconoscimento ha consentito alle istituzioni comunitarie di dedicare maggiori attenzioni anche alle esigenze trasversali dei disabili in sede di definizione delle altre politiche comunitarie che incidevano sulla loro vita. Il Trattato di Amsterdam è stato seguito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000 che costituisce la sintesi dei valori condivisi dagli Stati membri dell’UE e riunisce, per la prima volta, in un unico testo i diritti civili e politici classici e i diritti economici e sociali. Tale Carta riconosce ai disabili il diritto alla non discriminazione e l’esigenza di misure positive per l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità Il mutato approccio alle problematiche connesse alla disabilità emerge anche dalla decisione con la quale il Consiglio dell’Unione europea il 3 dicembre 2001 ha proclamato il 2003 anno europeo delle persone con disabilità.
La politica europea in tema di disabilità ha vissuto un momento importante anche con l’approvazione, nel 2003, del Piano d’Azione Europeo a Favore dei Disabili che non è ispirato all’ idea di un’assistenza passiva, bensì ai concetti di integrazione e di partecipazione attiva alla vita economica e sociale. Il Piano d’Azione Europeo ha validità dal 2004 al 2010 e rappresenta lo strumento utile per dare continuità concreta all’Anno europeo dei Disabili. Il Piano d’azione prevede anche l’istituzione di un gruppo interservizi della Commissione che si occupa di questioni relative alle persone con disabilità cui ha affidato il compito di portare avanti il processo del Piano stesso e di monitorare l’attuazione della strategia integrata da parte dei diversi servizi della Commissione. La mancanza di una legislazione comunitaria espressamente dedicata alla tutela dei disabili impedisce il riconoscimento a livello europeo di specifici diritti tutelabili attraverso il ricorso alla Corte di Giustizia Europea.
Solo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000 ha riconosciuto espressamente ai disabili il diritto di non discriminazione, affermando l’esigenza dell’adozione di misure positive per l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità. Pertanto, nel panorama delle decisioni della Corte di Giustizia Europea quelle che si occupano della tutela dei diritti dei disabili sono finalizzate, esclusivamente, a verificare il rispetto del principio di non discriminazione. In materia di divieti di discriminazione, le decisioni che si occupano in maniera diretta e specifica di definire il disabile come soggetto di diritti da tutelare sono poche. Tra queste si è scelto di esaminare la sentenza resa nel caso Chacon Navas del 2006 e la sentenza resa nel caso Coleman del 2008. Entrambe le sentenze si fondano sull’interpretazione della direttiva del Consiglio 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
In relazione alle problematiche connesse alla disabilità, il processo che ha condotto all’ adozione di una normativa di respiro internazionale è stato particolarmente lento e complesso. La tutela dei disabili, infatti, presuppone la realizzazione di scelte politiche che hanno delle forti implicazioni anche di carattere economico. Proprio le valutazioni di carattere economico hanno indotto, inizialmente, le Nazioni Unite ad intervenire nel settore della tutela internazionale dei disabili promuovendo l’elaborazione di norme standard piuttosto che favorendo la conclusione di una Convenzione che avrebbe comportato notevoli costi, sia in relazione al negoziato, sia in rapporto alla fase applicativa. Pertanto, a differenza di quanto è accaduto, ad esempio, per il settore della tutela dei minori, nell’ambito della tutela dei diritti dei disabili si è giunti alla approvazione di una Convenzione sui diritti dei disabili solo nel 2006, seguendo un percorso che è passato attraverso l’elaborazione di Norme standard. I fondamenti storici delle Norme standard risalgono al 1981 che le Nazioni Unite proclamarono anno internazionale delle persone disabili. Nello stesso anno fu particolarmente valorizzata l’azione delle varie organizzazioni internazionali e dell’ONU nel settore della tutela dei disabili. In particolare, l’ONU aveva proclamato due Dichiarazioni negli anni ’70 entrambe dedicate ai diritti dei disabili e aveva battezzato il decennio 1983-1992 come “Decennio delle persone disabili”.
Le Dichiarazioni ONU del 1971 e del 1975 contenevano l’espresso richiamo alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. Si affermava, inoltre, la titolarità da parte dei disabili di un certo numero di diritti da esercitare soprattutto in ambito sociale, in ambito familiare, nel processo e in altri settori specificamente indicati. Tuttavia, le dichiarazioni ONU degli anni ’70 del 1900, con l’elencazione specifica dei diritti riconosciuti ai disabili, implicitamente, escludevano che la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e gli atti da essa derivati potessero trovare integrale applicazione anche per tale categoria di soggetti. A ciò si aggiunga che, anche sul piano internazionale come sul piano nazionale, la normativa posta a tutela dei disabili aveva un’impostazione caritativa, assistenziale e non promozionale. Alla fine del 1900, come in Italia, nell’ambito della comunità internazionale si è diffusa la necessità di promuovere un nuovo e diverso approccio alle problematiche connesse alla disabilità. Nel 1982 le Nazioni Unite, con risoluzione dell’Assemblea Generale n. 37/52 hanno adottato il Programma Mondiale di Azione Concernente i Disabili che elencava una serie di settori precedentemente trascurati colmando il vuoto lasciato dalle Dichiarazioni degli anni ’70.
Tuttavia, i documenti dell’ONU enunciavano dei principi che non erano in grado di tradursi in norme giuridicamente vincolanti e di imporsi come obiettivi da raggiungere per gli ordinamenti dei vari Stati La carenza di effettività dei principi sanciti dall’ONU nel Programma Mondiale del 1982 ha spinto alcuni Stati a proporre l’adozione di una Convenzione Internazionale sul tema della tutela dei disabili. In particolare, durante la Conferenza di Lubiana tenutasi nel marzo del 1987 il governo italiano propose di giungere all’approvazione di una specifica convenzione entro la fine del decennio. La proposta fu accolta all’unanimità e fu riformulata, sempre dal governo italiano, nel corso della Conferenza Mondiale dei 25 esperti dell’ONU tenutasi a Stoccolma nel 1987 ottenendo anche in quella sede, l’unanime approvazione ed essendo inserita nella Risoluzione adottata al termine della stessa Conferenza. Guidato dalla deliberazioni dell’Assemblea generale, il Consiglio per gli affari economici e sociali, attraverso la risoluzione 1990/26 del Maggio 1990, autorizzò la Commissione per lo Sviluppo sociale a considerare la creazione di un gruppo di lavoro ad hoc, permanente, formato da esperti di governo, finanziato con contributi volontari, per elaborare delle norme standard per la realizzazione delle pari opportunità per bambini, giovani e adulti disabili, in stretta collaborazione con le organizzazioni specializzate, e con altri gruppi governativi e organizzazioni non governative e, specialmente, con organizzazioni di persone disabili.
Le Norme Standard per il raggiungimento delle pari opportunità delle persone con disabilità sono state sviluppate sulla base dell’esperienza maturata durante il Decennio delle Persone Disabili delle Nazioni Unite (1983-1992). Il fondamento politico e morale di tali norme, infatti, è rappresentato dalla Legge internazionale sui Diritti Umani, dall’Accordo Internazionale sui Diritti Economici Sociali e Culturali, dall’Accordo Internazionale sui Diritti Civili e Politici, dalla Convenzione sui Diritti dei Bambini e dalla Convenzione sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione contro le Donne così come dal Programma di Azione Mondiale riguardante le Persone Disabili.
Le Norme Standard, pur avendo definito le linee guida della politica internazionale in materia di disabilità, rappresentavano, comunque, una soluzione di compromesso dal momento che esse sono prive di efficacia vincolante. Con il passare del tempo lo strumento delle ” Regole standard per le pari di opportunità delle persone con disabilità ” si è rivelato incapace di garantire la tutela dei diritti violati. Pertanto, è progressivamente cresciuta la consapevolezza della necessità di addivenire alla adozione di una Convenzione internazionale. La proposta di avviare i negoziati per l’approvazione di una Convenzione per la tutela dei disabili fu accolta solo nel 2000, quando il Messico riuscì a far approvare dall’Assemblea Generale la Risoluzione 56/168. Con tale Risoluzione furono fornite indicazioni per sperimentare, attraverso la costituzione di un Comitato ad hoc, la possibilità di discutere e approvare, appunto, una Convenzione per i diritti delle persone con disabilità. La nuova Convenzione è stata approvata in via definitiva il 13 dicembre 2006 a New York ed è stata aperta alla ratifica degli Stati membri dell’ONU a partire dal 30 marzo 2007.
La Convenzione rappresenta la conclusione di un lungo cammino volto alla riaffermazione del principio della universalità, indivisibilità, interdipendenza e interrelazione di tutti i diritti umani. La Convenzione, che rappresenta il primo grande trattato sui diritti umani del terzo millennio, non intende stabilire un nuovo diritto o un diritto particolare ma ha il compito di rendere effettivi i principi internazionali in vigore e, soprattutto, di rendere chiari i bisogni e le necessità della disabilità, affinché i diritti politici e civili, la partecipazione e l’inclusione, il diritto all’educazione, alla salute, al lavoro e alla protezione sociale siano più che delle dichiarazioni universali. La Convenzione approvata nel 2006 rappresenta, di fatto, una pietra miliare nel percorso di accettazione, partecipazione e inserimento alla vita sociale e lavorativa dei disabili. Essa è stata firmata da 126 Paesi e ratificata da 49, ed è entrata in vigore il 3 maggio 2008 colmando una lacuna del diritto internazionale e tratteggiando nel dettaglio i diritti di cui godono le persone disabili. Anche l’Italia ha recentemente ratificato la Convenzione attraverso l’approvazione della legge n.18 avvenuta nel febbraio 2009.