Home » Articles posted by Tesi in diritto (Page 7)
Author Archives: Tesi in diritto
Diritti in costruzione. Presupposti per una definizione efficace dei livelli essenziali di assistenza sociale
Lo spettro della povertà è tornato a manifestarsi nell’esperienza quotidiana di fasce sociali che si pensava ne fossero al riparo. Cresce il bisogno di welfare proprio mentre le risorse ad esso dedicate diminuiscono. In Italia, la legislazione sui livelli minimi di assistenza è ancora lontana dall’essere applicata, lasciando ampio spazio alla discrezionalità nelle misure di intervento. Ciò accade non solo per questioni economiche o per disinteresse politico, ma per l’insieme delle caratteristiche culturali e strutturali del nostro sistema di welfare. Questo libro offre contenuti e strumenti utili per procedere su strade realistiche, articolando il piano della definizione del diritto e quello degli interventi. Esito di una ricerca che ha coinvolto un gruppo interdisciplinare di studiosi composto da giuristi, sociologi ed economisti che hanno interagito con una rete di enti e istituzioni responsabili in tema di welfare in Italia, il libro parte dalle analisi degli autentici bisogni dei cittadini, dalle loro storie, nella convinzione che la tutela dei diritti fondamentali non solo non ostacola, ma non può che contribuire allo sviluppo di tutto il Paese.
Dati del libro
Titolo: Diritti in costruzione. Presupposti per una definizione efficace dei livelli essenziali di assistenza sociale
Autore: Costa G.
Prezzo: € 12,75
Anno: 2012
Altri dati:150 p., brossura
Editore: Bruno Mondadori
Acquista su Amazon
Osservazioni sull’anatocismo nei mutui: il punto della situazione
Le contestazioni relative alla pratica dell’anatocismo nei mutui e, in particolare, alla illegittimità del sistema di ammortamento definito “alla francese” hanno avuto un primo riconoscimento nella sentenza del Tribunale di Bari-sezione distaccata di Rutigliano che risale al 29.10.2008.
Per il momento, la cronaca giudiziaria ha registrato solo un’altra sentenza di merito che pare ribadisca l’illegittimità della forma più diffusa e usata di ammortamento. Si tratta di una pronuncia resa dal Tribunale di Larino – sezione distaccata di Termoli – nel maggio scorso . (altro…)
CEDU: dall’Italia più garanzie per il pagamento dei debiti degli Enti pubblici in dissesto
Con le sentenze rese nei casi De Luca contro Italia e Pennino contro Italia del 24 settembre 2013 la Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha affrontato una questione molto interessante. La Corte è stata adita da due cittadini italiani che, pur avendo conseguito sentenze passate in giudicato, rispettivamente, il 9 maggio 2004 e il 22 marzo 2003, che li riconoscevano creditori nei confronti del Comune di Benevento a seguito di azioni risarcitorie, non hanno potuto intraprendere l’azione esecutiva delle conseguenti condanne.
Infatti, nel dicembre del 1993, pendenti i giudizi, era intervenuta la dichiarazione di dissesto finanziario dell’ente pubblico. La gestione del risanamento del Comune era stata affidata all’organismo straordinario di liquidazione.
Com’è noto, l’art. 248 II comma TUEL stabilisce che “ Dalla data della dichiarazione di dissesto e sino all’approvazione del rendiconto di cui all’articolo 256 non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell’ente per i debiti che rientrano nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione. Le procedure esecutive pendenti alla data della dichiarazione di dissesto, nelle quali sono scaduti i termini per l’opposizione giudiziale da parte dell’ente, o la stessa benché proposta è stata rigettata, sono dichiarate estinte d’ufficio dal giudice con inserimento nella massa passiva dell’importo dovuto a titolo di capitale, accessori e spese.”
Tale disciplina normativa è finalizzata a garantire la par condicio creditorum e a permettere l’effettivo risanamento dei conti dell’ente in dissesto.
Tuttavia, nei casi sottoposti alla Corte Europea i giudizi di risarcimento del danno sono stati molto lunghi, come, del resto, la procedura di risanamento dei conti del Comune. In questo lasso di tempo, dunque, come rilevato dai ricorrenti, è stato impedito loro di porre in esecuzione le sentenze definitive e di accedere al Tribunale, con conseguente violazione dell’art.6 § 1 delle Convenzione Europea dei diritti per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Inoltre, i ricorrenti lamentano anche la violazione dell’art.1 del Protocollo 1 della Convezione, posto a tutela della proprietà. Tale disposizione, infatti, stabilisce che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.”
A ciò si aggiunga la violazione dell’art.13 della citata Convenzione in base al quale “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.
A fronte di tali doglianze lo Stato italiano nelle proprie difese ha affermato che nei casi di specie non potesse trovare applicazione l’art.13 e che alcuna violazione dell’art.1 Protocollo 1 fosse configurabile in quanto il credito dei ricorrenti era stato ammesso al passivo. Inoltre, lo Stato ha ribadito la legittimità della limitazione all’accesso al Tribunale ex art.248 II comma TUEL in virtù del principio della par condicio creditorum.
La Corte ha accolto i ricorsi dei sig.ri De Luca e Pennino ritenendo che, nei casi di specie, sia stato violato il diritto sancito dall’art.6 § 1 della Convenzione. Infatti, anche in precedenti pronunce, la Corte ha rilevato che tale diritto sarebbe vanificato se l’ordinamento interno di uno Stato contraente permettesse che una sentenza definitiva ed esecutiva, non potesse essere eseguita a danno di una parte. L’esecuzione di una sentenza pronunciata da un tribunale, deve essere considerata come facente parte integrante del “processo” ai sensi dell’articolo 6 (Hornsby. Grecia, 19 Marzo, 1997, § 40, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997 II e Burdov c. Russia (n. 2), n. 33509/04, § 65, 15 gennaio 2009). Il diritto di accesso al Tribunale, poi, non è assoluto. Infatti, la Corte ha ribadito che alcune limitazioni sono implicitamente ammesse, purchè non restringano il citato diritto in modo o in misura tale da comprometterlo nella sua stessa sostanza. Inoltre, dette limitazioni sono compatibili con l’articolo 6 § 1, solo se perseguono uno scopo legittimo e se esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito ( tra le tante si vedano Khalfaoui c . Francia, n. 34791/97, § § 35-36, CEDU 1999-IX, e Papon c. Francia, n. 54210/00, § 90, 25 luglio 2002, si veda anche il richiamo dei principi pertinenti in Fayed c.Regno Unito, 21 settembre 1994, § 65, serie A n. 294-B).
Ebbene, nei casi sottoposti all’esame della Corte la limitazione contestata, come correttamente osservato dallo Stato italiano, è finalizzata a perseguire il legittimo scopo di garantire la par condicio creditorum. Il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive nei confronti del Comune sancito dalla normativa italiana rimane in vigore fino alla chiusura del procedimento di risanamento. Tuttavia, la durata del procedimento sfugge al controllo del ricorrente.
Il Comune di Benevento è stato dichiarato in stato di dissesto nel dicembre del 1993 e la Corte non è stata informata in merito alla data di chiusura del procedimento. Pertanto, i ricorrenti, che hanno ottenuto l’accertamento giudiziale definitivo dei propri crediti nel 2003 e nel 2004, sono stati privati del diritto di accesso al Tribunale, per un periodo troppo lungo e indeterminato. Agli occhi della Corte, non vi è proporzionalità tra il limite all’accesso al Tribunale e lo scopo perseguito. Vi è stata, quindi, una violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo che assorbe gli altri motivi di ricorso.
In applicazione dell’art.41 della Convenzione, la Corte ha condannato lo Stato italiano a risarcire i ricorrenti per i danni subiti.
Il Tribunale di Milano si pronuncia sui mutui con ammortamento alla francese
Con sentenza del 30 ottobre 2013 anche il Tribunale di Milano ha affrontato la questione della legittimità dell’ammortamento alla francese. Il caso esaminato e affrontato dal giudice meneghino riguarda due contratti di mutuo nei quali, secondo la ricostruzione attorea, la pattuizione del tasso di interesse avrebbe violato gli art. 1346 – 1418 – 1419 c.c., sarebbe stata incompatibile con i principi di inderogabilità in tema di determinabilità dell’oggetto nei contratti formali, avrebbe violato gli art. 1283 e 1284 c.c. , nonché la norma dell’art. 1322 c.c. e l’art. 9, co. 3, della legge n. 192 del 1998 che vieta l’abuso di dipendenza economica. (altro…)
Una rassegna della recente giurisprudenza in materia di mutui
La contestazione delle clausole di un mutuo e la difesa rispetto a decreti ingiuntivi e procedure esecutive promosse da Istituti di Credito in caso di inadempimento del cliente mutuatario si basano, essenzialmente, su alcune fondamentali questioni che impegnano, con sempre maggiore frequenza, i giudici di merito.
In primo luogo, è ampiamente discussa la modalità di verifica dell’eventuale usurarietà dei tassi di interesse corrispettivi e di mora che sono stati pattuiti nel contratto. Inoltre, si dibatte in merito alla illegittimità del sistema di ammortamento alla francese. Non mancano, poi, casi in cui si rileva la indeterminatezza e/o indeterminabilità dell’oggetto del contratto per effetto dell’equivoca pattuizione degli interessi. Né va dimenticata la questione relativa al superamento dei limiti di finanziabilità. (altro…)
Il Collegio di Coordinamento ABF e l’usurarietà degli interessi di mora
(di Alfonsina Biscardi) In un precedente contributo abbiamo avuto modo di fare un resoconto della giurisprudenza di merito che ha affrontato il problema della usurarietà degli interesse di mora, ad un anno di distanza dalla sentenza della Corte di Cassazione n.350 del 2013. Secondo alcuni commentatori, dalla citata sentenza si dedurrebbe il principio secondo cui gli interessi di mora concorrerebbero a determinare, assieme agli interessi corrispettivi, il costo complessivo dei mutui e delle operazioni finanziarie, in genere. Pertanto, ai fini della verifica dell’eventuale violazione della legge n.108 del 1996, si dovrebbe procedere alla somma aritmetica dei due tassi convenzionalmente pattuiti e confrontarli con il parametro rilevato trimestralmente, meglio noto come TEGM. Tutto ciò, malgrado sia noto che nella determinazione del TEGM, in base alle indicazioni fornite dalla Banca d’Italia, non si tenga conto degli interessi di mora. (altro…)
L’usurarietà dei tassi di interesse nei mutui
(di Alfonsina Biscardi) Risale agli inizi del 2013 la sentenza della Corte di Cassazione n.350 che ha dato avvio ad un acceso dibattito in merito alla verifica della usurarietà dei tassi di interesse nei mutui e, in generale, nelle operazioni di finanziamento. La sentenza, invero abbastanza stringata, dedica alla problematica della verifica dell’usurarietà dei tassi un breve passaggio. Infatti, si limita a ritenere fondata la censura mossa dal mutuatario ricorrente in Cassazione rispetto al metodo con il quale nei precedenti gradi di giudizio era stato effettuato il calcolo del tasso pattuito in raffronto con il tasso soglia. In tale calcolo non si era tenuto conto della maggiorazione di tre punti prevista a titolo di mora. (altro…)
L’Autorità Garante per la privacy sulla rilevazione dei dati biometrici e la videosorveglianza negli istituti scolastici
Tre recentissimi provvedimenti dell’Autorità Garante per la privacy affrontano il problema della liceità dell’impiego di strumenti finalizzati alla rilevazione di dati biometrici e di sistemi di videosorveglianza in ambito scolastico.
In particolare, il Garante, a seguito di notizie rilevate a mezzo stampa e di specifiche segnalazioni, ha disposto ispezioni in tre istituti superiori.
A Taranto e a Martina Franca il problema sollevato dal personale docente e ATA riguardava l’installazione di un impianto di rilevazione delle impronte digitali e, dunque, attraverso esse dei dati biometrici, per controllare le presenze sul luogo di lavoro. Il Garante in più occasioni ha individuato le condizioni in presenza delle quali il trattamento di tali dati può ritenersi lecito.
In particolare, l’Autorità ha precisato che tali dati possono essere, di regola, utilizzati solo in casi particolari, tenuto conto delle finalità perseguite dal titolare e del contesto in cui il trattamento viene effettuato, nonché – con specifico riguardo ai luoghi di lavoro – per presidiare l’accesso ad “aree sensibili” in considerazione della natura delle attività ivi svolte.
In applicazione dei principi di necessità nonché di pertinenza e non eccedenza (art. 11, comma 1, lett. d), del Codice) dei trattamenti effettuati in relazione alle finalità perseguite, il Garante ha, di regola, ritenuto sproporzionato l’impiego generalizzato di dati biometrici per finalità di rilevazione delle presenze dei lavoratori (cfr. Provv. del 31 gennaio 2013 n. 38, doc. web n. 2304669; v. già le Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico del 14 giugno 2007, punto 7.1; questo orientamento è stato condiviso, proprio in sede di impugnazione di un’ordinanza-ingiunzione dell’Autorità, dal Trib. Prato, 19 settembre 2011). Infatti, a tale fine possono essere utilizzate idonee modalità alternative che non incidano sulla libertà e la dignità stessa dei lavoratori interessati.
Il titolare del trattamento, allo scopo di verificare il puntuale rispetto dell’orario di lavoro può disporre di altri sistemi, meno invasivi della sfera personale nonché della libertà individuale del lavoratore, che non ne coinvolgano la dimensione corporale (cfr. Provv. 31 gennaio 2013, n. 38; con specifico riferimento all’impiego di analoghi sistemi di rilevazione in ambito scolastico cfr. Provv.ti 30 maggio 2013).
Peraltro, il trattamento dei dati biometrici per la registrazione delle presenze, oltre ad essere in linea di principio sproporzionato, potrebbe comunque, in concreto, rivelarsi di scarsa utilità nel contrasto di eventuali casi di allontanamento dal servizio atteso che tale modalità di rilevazione delle presenze, in difetto di efficaci sistemi di controllo e vigilanza sull’effettiva (operosa) presenza dei lavoratori durante l’arco dell’intera giornata lavorativa, non è di per sé in grado di assicurare la concreta presenza sul luogo di lavoro di dipendenti infedeli.
Va, inoltre, considerato che nel rispetto del principio di correttezza il trattamento dei dati biometrici dedotti dalle impronte digitali può avvenire solo a seguito di un accordo con i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali e di una chiara esposizione delle modalità peculiari del trattamento che si intende effettuare, nonché di una esauriente informativa preventiva agli interessati ai sensi dell’art. 13 del Codice. Infine il trattamento dei dati biometrici richiede la notificazione ai sensi dell’art. 37, comma 1, lett. a), del Codice.
Dalle ispezioni compiute presso gli istituti scolastici di Taranto e di Martina Franca è emerso che non ricorreva alcuna delle condizioni in precedenza indicate. Il Garante, in primo luogo, ha verificato che i dirigenti scolastici interessati non hanno fornito prova della necessità e pertinenza del trattamento. L’installazione del sistema di rilevazione delle impronte digitali era motivato dalla volontà di prevenire condotte abusive dei dipendenti. Tuttavia, non vi era prova che l’impiego di sistemi diversi e meno invasivi di rilevazione delle presenze come, ad esempio, quello del badge, non avessero funzionato. Anzi, in passato, in casi di ritardi e assenze ingiustificate dal lavoro, l’istituto scolastico era stato perfettamente in grado di contestare i relativi addebiti ai responsabili. Inoltre, non si era proceduto all’accordo con i lavoratori, non era stata fornita loro una soddisfacente informativa, né era stata effettuata la notificazione al Garante.
Con un altro provvedimento, invece, l’Autorità Garante ha affrontato anche il problema dell’impiego della videosorveglianza. In un istituto scolastico di Roma, all’insaputa del personale, erano presenti alcune telecamere installate in tempi successivi. Rispetto ad una di queste collocata nel corridoio di accesso all’area amministrativa non erano state rese note, né le ragioni della sua installazione, né l’orario in cui essa era attiva, né se venivano effettuate registrazioni, né chi era a conoscenza delle password per accedere alle riprese o alle registrazioni. In breve, non erano stati apposti i dovuti cartelli di segnalazione e, men che meno, era stata resa nota l’informativa dettagliata imposta dalla legge. Ulteriori telecamere, poi, effettuavano riprese di alcune aree del’’istituto frequentate da studenti durante il periodo di apertura del medesimo. Inoltre, era presente in istituto anche un impianto di rilevazione dei dati biometrici.
Le circostanze segnalate al Garante erano confermate dalle verifiche compiute dall’Ispettorato del Lavoro che, ai sensi dell’art.4 dello Statuto dei Lavoratori, disponeva l’ordine di disinstallazione dell’impianto di videosorveglianza e del sistema di rilevazione delle impronte digitali.
L’Autorità Garante, con il provvedimento in commento ha dichiarato che le rilevazioni effettuate dall’Istituto scolastico con l’impianto di videosorveglianza posto presso gli uffici amministrativi non sono lecite in quanto violano la disciplina prevista dagli artt. 13, 114 del Codice e 4, comma 2, l. n. 300/1970. Peraltro, tale trattamento, essendo idoneo a riprendere anche gli studenti che frequentavano l’istituto, non risultava conforme a quanto stabilito dal Garante, nel provvedimento generale in materia di videosorveglianza dell’8 aprile 2010, atteso che in ambito scolastico l’utilizzo di sistemi di videosorveglianza deve ritenersi ammissibile solo “in casi di stretta indispensabilità, al fine di tutelare l’edificio ed i beni scolastici da atti vandalici, circoscrivendo le riprese alle sole aree interessate ed attivando gli impianti negli orari di chiusura degli istituti; è vietato, altresì, attivare le telecamere in coincidenza con lo svolgimento di eventuali attività extrascolastiche che si svolgono all’interno della scuola”(punto 4.3.1).
Mi viene da considerare che, probabilmente, in un’ottica di uso efficiente delle scarse risorse finanziarie disponibili nelle scuole, anziché investire in costosi impianti di videosorveglianza e di rilevazione delle impronte digitali, sarebbe stata più opportuna una seria consulenza e formazione in materia di tutela della privacy.
Riflessioni a margine della sentenza della Corte di Cassazione n.18443 del 1 agosto 2013: il Disciplinare per l’utilizzo di internet e della posta elettronica sui luoghi di lavoro
La sentenza della Corte di Cassazione n. 18443 del 1 agosto 2013 mi dà lo spunto per soffermarmi su una questione che da tempo è oggetto di confronto e di dibattito. Nella mia esperienza di consulente per l’attuazione della normativa posta a tutela della privacy (d.lgs. n. 196 del 2003) ho potuto verificare che durante gli incontri formativi nei quali sono coinvolti datori di lavoro pubblici e/o privati e dipendenti, appassiona il problema della legittimità dell’accesso e del trattamento dei dati di navigazione in internet e, più in generale, dell’attività svolta al computer, dal dipendente.
La citata pronuncia della Corte di Cassazione, ha affrontato tale questione confermando quanto statuito nel merito dal Tribunale di Palermo al quale era stato sottoposto un provvedimento con cui l’Autorità Garante per la Tutela della Privacy aveva censurato la condotta di un datore di lavoro che aveva intimato il licenziamento per giusta causa ad un suo dipendente. Il lavoratore era stato licenziato perché durante l’orario di lavoro aveva navigato in internet, visitando siti che non avevano alcuna attinenza con l’attività lavorativa svolta e che avevano contenuto pornografico. Il controllo della navigazione internet da parte del datore di lavoro aveva comportato l’accesso a dati sensibili relativi al lavoratore che, dunque, considerando illecito il trattamento degli stessi, si è rivolto all’Autorità garante segnalando l’accaduto.
Con apposito provvedimento del 02.02.2006 il Garante ha rilevato la natura illecita del trattamento dei dati emersi dal controllo dei log di connessione. Il datore di lavoro, infatti, non ha informato il lavoratore del controllo che non rientrava nelle ordinarie o straordinarie attività di manutenzione dei computer. Inoltre, il trattamento dei dati sensibili emersi dalla navigazione non era legittimato nemmeno dall’art.26 comma 4, lett. c), del Codice, in quanto tali dati non erano necessari al datore di lavoro per far valere o difendere un proprio diritto in giudizio.
Infatti, il lavoratore, per le mansioni svolte non aveva alcuna necessità di navigare in internet; pertanto il licenziamento avrebbe potuto essere validamente motivato per la semplice circostanza della navigazione, senza alcuna necessità di controllare i log di connessione e di accedere e trattare dati sensibili in violazione del codice a tutela della privacy. Peraltro, il diritto fatto valere dal datore di lavoro attraverso il licenziamento non era di rango pari a quello dell’interessato cioè non consisteva in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile. In altri termini, la tutela del diritto datoriale non poteva giustificare una limitazione della tutela del diritto alla riservatezza del lavoratore.
Naturalmente il datore di lavoro si è rivolto al Tribunale di Palermo, ai sensi dell’art. 152 d.lgs. n. 196/2003. Il giudice di merito, con sentenza del 26.06.2008, ha confermato l’assunto dell’Autorità Garante e, dunque, ha concluso per l’inutilizzabilità dei dati posti a fondamento del licenziamento. La vicenda giudiziaria si è conclusa con la sentenza n. 18443 del 1 agosto del 2013 con cui la Corte di Cassazione, in primo luogo, ha effettuato alcune precisazione definitorie e, con particolare riferimento all’accesso a siti internet con contenuti pornografici, ha precisato che, come statuito in sede penale, oggetto di tutela da parte del d.lgs. n. 196/2003 «non sono solo i gusti sessuali di un individuo (astrattamente e genericamente considerati), ma, anche, le concrete scelte che, in questo campo, il soggetto va ad operare» (Sez. 5 penale, Sentenza n. 44940 del 2011).
Pertanto, è indubbio che sono dati personali idonei a rilevare la vita sessuale – «da intendersi come complesso delle modalità di soddisfacimento degli aspetti sessuali di una persona» (Sez. 5 penale, Sentenza n. 46454 del 2008) – quelli relativi alla “navigazione” in internet con accesso a siti pornografici.
In secondo luogo, la Corte di Cassazione, ha confermato quanto statuito dal Garante, prima, e dal Tribunale di Palermo, poi.
La legittima esigenza di monitoraggio del datore di lavoro, dunque, ha avuto la peggio rispetto alla tutela della privacy del lavoratore.
Situazioni come quella che ha occasionato la pronuncia in esame, possono essere evitate facendo tesoro di quanto statuito dall’Autorità Garante per la privacy nelle Linee guida per posta elettronica e internet del 1 marzo del 2007.
In virtù del divieto sancito dall’art.4 dello Statuto dei lavoratori, il datore di lavoro, non può deliberatamente controllare l’attività svolta dal lavoratore durante l’orario di lavoro attraverso i dati di navigazione in internet e, men che meno, installando appositi programmi volti solo a monitorare l’impiego del computer. L’accesso ai dati, tuttavia, può avvenire in maniera casuale e non deliberata durante le sessioni di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’hardware e del software finalizzate a garantire la sicurezza dell’azienda e del lavoro in generale.
Il garante, dunque, precisa che il datore di lavoro è chiamato a promuovere ogni opportuna misura, organizzativa e tecnologica volta a prevenire il rischio di utilizzi impropri e, comunque, a “minimizzare” l’uso di dati riferibili ai lavoratori. Pertanto dal punto di vista organizzativo, è opportuno che:
« (…)
- si valuti attentamente l’impatto sui diritti dei lavoratori (prima dell’installazione di apparecchiature suscettibili di consentire il controllo a distanza e dell’eventuale trattamento);
- si individui preventivamente (anche per tipologie) a quali lavoratori è accordato l’utilizzo della posta elettronica e l’accesso a Internet;
- si determini quale ubicazione è riservata alle postazioni di lavoro per ridurre il rischio di un loro impiego abusivo. »
Il datore di lavoro ha anche l’onere di adottare tutte le misure tecnologiche volte a minimizzare l’uso di dati identificativi.
I lavoratori e le loro rappresentanze sindacali, poi, devono essere informati delle potenzialità invasive delle apparecchiature informatiche che utilizzano per lo svolgimento del proprio lavoro.
Infatti, in base al principio di correttezza, il trattamento dei dati relativi alla navigazione in internet e all’uso del pc del lavoratore rilevati casualmente dal datore di lavoro, deve essere ispirato ad un canone di trasparenza. Pertanto, «Grava sul datore di lavoro l’onere di indicare in ogni caso, chiaramente e in modo particolareggiato, quali siano le modalità di utilizzo degli strumenti messi a disposizione ritenute corrette e se, in che misura e con quali modalità vengano effettuati controlli. Ciò, tenendo conto della pertinente disciplina applicabile in tema di informazione, concertazione e consultazione delle organizzazioni sindacali.»
Il datore di lavoro, quindi, deve informare in maniera chiara e compiuta i lavoratori in merito a ciò che possono e che non possono fare attraverso l’uso del pc, della rete internet e della posta elettronica e degli eventuali controlli che possono avvenire in occasione della manutenzione ordinaria e straordinaria.
A tal fine, secondo il Garante, può risultare opportuno adottare un Disciplinare interno redatto in modo chiaro e senza formule generiche, da pubblicizzare adeguatamente (verso i singoli lavoratori, nella rete interna, mediante affissioni sui luoghi di lavoro con modalità analoghe a quelle previste dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, ecc.) definito coinvolgendo anche le rappresentanze sindacali nel quale siano chiaramente indicate le regole per l’uso di Internet e della posta elettronica, da sottoporre ad aggiornamento periodico. Tale Disciplinare doveva essere menzionato nel Documento Programmatico per la Sicurezza (DPS) che, com’è noto, è stato inopinatamente abolito nella forma descritta dal d.lgs. 196 del 2003.
«A seconda dei casi andrebbe ad esempio specificato:
- se determinati comportamenti non sono tollerati rispetto alla “navigazione” in Internet (ad es., il download di software o di file musicali), oppure alla tenuta di file nella rete interna;
- in quale misura è consentito utilizzare anche per ragioni personali servizi di posta elettronica o di rete, anche solo da determinate postazioni di lavoro o caselle oppure ricorrendo a sistemi di webmail, indicandone le modalità e l’arco temporale di utilizzo (ad es., fuori dall’orario di lavoro o durante le pause, o consentendone un uso moderato anche nel tempo di lavoro);
- quali informazioni sono memorizzate temporaneamente (ad es., le componenti di file di log eventualmente registrati) e chi (anche all’esterno) vi può accedere legittimamente;
- se e quali informazioni sono eventualmente conservate per un periodo più lungo, in forma centralizzata o meno (anche per effetto di copie di back up, della gestione tecnica della rete o di file di log );
- se, e in quale misura, il datore di lavoro si riserva di effettuare controlli in conformità alla legge, anche saltuari o occasionali, indicando le ragioni legittime –specifiche e non generiche– per cui verrebbero effettuati (anche per verifiche sulla funzionalità e sicurezza del sistema) e le relative modalità (precisando se, in caso di abusi singoli o reiterati, vengono inoltrati preventivi avvisi collettivi o individuali ed effettuati controlli nominativi o su singoli dispositivi e postazioni);
- quali conseguenze, anche di tipo disciplinare, il datore di lavoro si riserva di trarre qualora constati che la posta elettronica e la rete Internet sono utilizzate indebitamente;
- le soluzioni prefigurate per garantire, con la cooperazione del lavoratore, la continuità dell’attività lavorativa in caso di assenza del lavoratore stesso (specie se programmata), con particolare riferimento all’attivazione di sistemi di risposta automatica ai messaggi di posta elettronica ricevuti;
- se sono utilizzabili modalità di uso personale di mezzi con pagamento o fatturazione a carico dell’interessato;
- quali misure sono adottate per particolari realtà lavorative nelle quali debba essere rispettato l’eventuale segreto professionale cui siano tenute specifiche figure professionali;
- le prescrizioni interne sulla sicurezza dei dati e dei sistemi (art. 34 del Codice, nonché Allegato B).”»
La sentenza della Corte di Cassazione n. 18443 del 1 agosto 2013, dunque, fornisce l’occasione per ricordare che il Disciplinare per l’utilizzo di internet e della posta elettronica rappresenta un fondamentale strumento di prevenzione e non un ulteriore adempimento burocratico finalizzato solo a complicare la vita ai datori di lavoro. Predisposto con la partecipazione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori e aggiornato periodicamente, è bene che il Disciplinare sia esplicato in una apposita sessione formativa durante la quale è possibile fornire tutti i chiarimenti tecnici e giuridici.
Inoltre esso deve essere adeguatamente pubblicizzato e reso noto in modo che sia conoscibile a tutti coloro che stabilmente o, a maggior ragione, occasionalmente prestano collaborazione a favore del datore di lavoro. Laddove il datore di lavoro non vi provveda è assoluto interesse dei lavoratori sollecitarne l’adozione. Le regole non devono spaventare: esse aiutano ad evitare situazioni incresciose e problematiche.
La prescrizione del danno da violazione della privacy
Con la recentissima sentenza n.1229 del 2013 il Tribunale di Benevento ha deciso un contenzioso nel quale la parte attrice lamentava di aver subito un danno per effetto del trattamento illecito dei dati relativi al proprio conto corrente da parte di un istituto di credito. In particolare, la Banca avrebbe fornito al conduttore di un immobile di proprietà del correntista, gli estremi del suo nuovo conto corrente, in tal modo permettendogli di versare regolarmente il canone di locazione. Parte attrice, dunque, si doleva che il conduttore avesse effettuato il bonifico sul conto corrente appena acceso senza che la stessa gliene avesse comunicato gli estremi di cui, secondo il suo assunto, era venuto a conoscenza illecitamente in violazione della normativa relativa alla protezione dei dati personali. Pertanto, chiedeva l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento dei danni a carico dell’istituto di credito e del conduttore.
In base all’art.15 comma primo del d.lgs. n.196 del 2003 la violazione delle norme poste a tutela della riservatezza configura un’ipotesi di responsabilità ex art.2050 c.c. Infatti, tale norma dispone che chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Trattandosi di responsabilità extracontrattuale, in base all’art.2947 c.c., l’azione per l’accertamento della responsabilità e il conseguente risarcimento del danno si prescrivono in cinque anni decorrenti dal fatto illecito.
Nel caso deciso dal Tribunale di Benevento il presunto illecito trattamento dei dati del conto corrente da parte della banca, in base alla ricostruzione attorea, sarebbe avvenuto nel settembre 2002. Tale trattamento è stato segnalato anche all’Autorità garante per la privacy ed è stato oggetto di una querela inoltrata al Comandante della locale stazione dei carabinieri. Tuttavia, la domanda è stata proposta solo nel giugno 2010, pertanto si è senz’altro prescritta. Il Tribunale, rilevato che la Banca ha sollevato tempestivamente l’eccezione di prescrizione, senza entrare nel merito, ha rigettato la domanda per intervenuta prescrizione precisando che la segnalazione all’Autorità Garante e la querela ai Carabinieri non costituiscono validi atti interruttivi del termine prescrizionale ai sensi dell’art. 2943 c.c. . Infatti si tratta di atti con i quali il danneggiato non ha esercitato il proprio diritto al risarcimento nei confronti dei presunti autori del fatto illecito obbligati al risarcimento.
Con riferimento all’altro convenuto cioè al conduttore dell’immobile, invece, il Tribunale ha deciso anche nel merito, considerando inammissibile l’eccezione di prescrizione tardivamente sollevata. Ebbene, la domanda proposta nei confronti del conduttore è stata rigettata per carenza di prova. Infatti, come, peraltro, confermato dalla Cassazione nella sentenza n. 8451 del 2012, in applicazione dei criteri stabiliti dal citato articolo 2050 c.c. in tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa, la presunzione di colpa a carico del danneggiante posta da tale norma, presuppone il previo accertamento dell’esistenza del nesso eziologico – la cui prova incombe al danneggiato – tra l’esercizio dell’attività e l’evento dannoso, non potendo il soggetto agente essere investito da una presunzione di responsabilità rispetto ad un evento che non è ad esso in alcun modo riconducibile. Sotto il diverso profilo della colpa, incombe, invece, sull’esercente l’attività pericolosa l’onere di provare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno (Cass.5080/06; Cass. 19449/08; Cass. 4792/01; Cass. 12307/98). Nel caso di specie, dunque, l’attore non ha fornito alcuna prova del danno e del nesso eziologico con il presunto illecito trattamento dei dati.